Esteri

SINDACATI E LAVORATORI NON TOLGONO IL DISTURBO

Lavoro, salari, sicurezza, salute e democrazia, chiedono migliaia di persone, ignorate dalla grande stampa, sfilando per le vie di Roma 

Un modello opposto all’economia di guerra che impone il governo Meloni – in ricca compagnia in Europa – incentrato sul riarmo, con i soldi per missili e cannoni sottratti alla sanità che agonizza tra pronto soccorso intasati e liste d’attesa chilometriche; entro la fine dell’anno mancheranno 150mila medici e infermieri e crescerà la desertificazione degli ospedali pubblici ingrassando la sanità privata, per chi può permettersela.

 

Mi racconta Evaristo, metalmeccanico bergamasco mentre sfila in corteo: «Il mio medico e uno specialista mi hanno prescritto un’ecografia per verificare la gravità di una cisti al rene, ho chiamato la ASL e mi hanno detto che la prima data utile in Lombardia è il 26. Pensavo volesse dire il 26 di aprile e invece no, intendeva il 2026».

 

I salari perdono potere d’acquisto per l’inflazione e il rifiuto dei padroni pubblici e privati di rinnovare i contratti scaduti. Le destre che impediscono il rinnovo dei contratti pubblici sono le stesse che bloccano il varo di una legge sul salario minimo. Sono quelle stesse destre che hanno ulteriormente precarizzato il lavoro e introdotto i subappalti a cascata, alla base dell’aumento abnorme degli infortuni sul lavoro con i morti passati da tre a quattro al giorno. “Non avete una coscienza”, ha gridato il segretario della UIL Bombardieri nel comizio finale della manifestazione sindacale del 20 aprile a Roma.

 

Sono le stesse destre che peggiorano con regalie e condoni agli evasori un modello fiscale già classista, dove salari e pensioni sono tassati il doppio delle rendite finanziarie. “Burro e cannoni”, recitava la propaganda bellicista mussoliniana, oggi nelle politiche di Giorgia Meloni restano solo i cannoni e l’industria bellica è tra i pochissimi settori industriali in crescita, mentre il resto dell’economia langue o fugge verso altri paesi. Ma a fuggire dall’Italia o dal pubblico sono anche tanti medici e infermieri mal pagati e tanti giovani diplomati e laureati senza lavoro o con contratti da fame, 700mila l’anno varcano i confini.

 

In compenso l’industria che tira non riesce a trovare manodopera sempre perché i salari sono da fame. Però, giura la coppia Meloni-Salvini che ulula contro il crollo della natalità “italiana”, guai a far entrare i migranti che vanno fermati sul bagnasciuga, meglio ancora nei porti di partenza o in mezzo al mare mettendo in quarantena le navi di soccorso. Vorremo mica favorire la sostituzione etnica? Sono fascisti nell’anima, come direbbe lo storico Luciano Canfora rinviato a giudizio per avere così definito Giorgia Meloni.

 

Il serpentone colorato che invocava un’altra Italia riempiva lo stradone che dalle rovine romane affacciate sul Circo Massimo, scendendo lungo viale Aventino, piazza Albania, via della Piramide Cestia arriva a Porta San Paolo. Decine di migliaia di lavoratori e pensionati dipinti di rosso e di blu, i colori di CGIL e UIL. Mancavano le bandiere della CISL, come allo sciopero generale di una settimana prima: il vecchio e nobile sindacato cattolico ha divorziato persino dalla propria storia incentrata sull’autonomia dai governi e dai partiti, in nome del confronto con Meloni a cui riconosce meriti che solo il segretario della CISL Luigi Sbarra riesce a vedere, ma la rottura con CGIL e UIL matura da tempo. Dice Sbarra che la migliore riforma del lavoro è stata il jobs act di Matteo Renzi. Quel jobs act che cancella la dignità dei lavoratori contro cui la CGIL sta raccogliendo le firme per arrivare al referendum abrogativo e contro cui da qualche anno scioperano e manifestano CGIL e UIL.

 

Cinque milioni di poveri assoluti, quasi altrettanti con salari inferiori a 11mila euro l’anno. Si è poveri lavorando, insiste il segretario CGIL Maurizio Landini che non dimentica di annotare il crescente autoritarismo nell’elenco delle malefatte del governo che impoveriscono l’Italia, con i settori già trainanti dell’economia, dall’auto alla siderurgia in uno stato agonizzante: «No al regime del controllo, no a un governo che invece di governare comanda e chiude gli spazi di libertà e opinione attaccando il diritto a scioperare e a manifestare», ai lavoratori con le precettazioni, agli studenti con le cariche poliziesche, mentre gli intellettuali vengono epurati dal servizio pubblico televisivo con nuovi editti bulgari ancor più indecenti di quelli che avevano caratterizzato l’era Berlusconi.

 

Mentre la Rai censura un monologo già programmato di Antonio Scurati sul 25 aprile, la grande stampa a sua volta ignora tutto ciò che ha a che fare con le battaglie dei lavoratori e del sindacato. La grande manifestazione di sabato scorso non ha trovato riscontri sulle prime pagine delle maggiori testate, tanto in quelle che plaudono al nuovo corso meloniano quanto in quelle più vicine al PD o ai 5 Stelle. I corpi intermedi sono un sovraccarico nelle scelte e nelle narrazioni delle democrature e i lavoratori non devono avere volto, visibilità, in fondo non son altro che anelli nella catena del profitto. Tutto viene deciso da pochi, possibilmente da un uomo solo, o donna sola, al comando.

 

C’è un nesso tra il modo autoritario di gestire il conflitto sociale, politico e culturale e la pretesa di imporre il premierato stravolgendo la Costituzione. Purtroppo, i media, con poche lodevoli eccezioni, si adeguano e dal canto loro si impegnano a depennare dai menabò ogni elemento di disturbo. E i primi a disturbare il pacifico racconto in un’economia di guerra sono i lavoratori con le loro pretese su salari, orari, sicurezza, salute, occupazione, democrazia.

Pubblicato il

24.04.2024 08:37
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