C’è una sorta di coro generale in cui cantano tutti, dalla direttrice del Fondo monetario internazionale, agli esperti che tentano una diagnosi sull’economia ticinese: aumentano in misura preoccupante le diseguaglianze di reddito; la ricchezza è sempre peggio ridistribuita e sempre più accentrata in poche persone o multinazionali.


Nel sistema economico dominante le ineguaglianze sono ritenute giuste se risultano dalla concorrenza che dà a ognuno la possibilità di operare liberamente e di far valere i propri meriti. Gli ostacoli che si creano alla concorrenza sono nefasti perché: o frenano l’efficacia dell’economia (i consumatori ne patiranno le conseguenze) o sono ingiusti (si creano a difesa cartelli o monopoli di cui beneficeranno pochi) oppure uccidono l’economia stessa (con regole e apparati di controllo che soffocano le imprese).


I sindacati si prefiggono di ridurre la concorrenza tra i salariati, di eliminare la concorrenza (dumping salariale) cui si ricorre in nome della concorrenza, di creare la solidarietà tra i lavoratori, di non mitizzare competitività e produttività quando hanno l’unico scopo di alzare i profitti e accontentare gli azionisti. I sindacati non operano quindi nella linea voluta dal sistema dominante. Non possono essere né ben visti né tollerati dai corifei (economisti, imprenditori, politici) del sistema. Che tentano appunto di emarginarli.
Da un’organizzazione non sospetta, fedele al sistema, il Fondo monetario internazionale, esce uno studio di due ricercatrici (Florence Haumotte e Carolina Osorio Buitron) che analizzando la forte e “spettacolare” ineguaglianza intervenuta dopo gli anni ’80 introducono un protagonista inconsueto: il sindacato. Qual è in sintesi la loro argomentazione?


Sinora le ineguaglianze sono state spiegate con il progresso tecnico (la eliminazione di molti lavori, perlopiù poco qualificati, con l’introduzione di nuove tecnologie) e la globalizzazione (che ha messo in aperta concorrenza i lavoratori dei paesi ricchi con quelli dei paesi emergenti, a salari e condizioni di lavoro bassissimi). Ci sono stati altri fattori importanti, sottovalutati, come la deregolamentazione finanziaria con le conseguenze nefaste che ha comportato e i sempre più calanti tassi di imposizione fiscale sugli alti redditi in nome della concorrenza fiscale.


Dall’esame di venti tra i principali paesi sviluppati, scaturisce però che tra il 1980 e il 2010 c’è una forte correlazione tra il calo dei tassi di sindacalizzazione e la crescita delle ineguaglianze: più il tasso di sindacalizzazione si abbassa, più aumenta la parte di ricchezza finita al 10 per cento dei più ricchi. In termini ancora più concreti e dimostrati: il calo del numero dei lavoratori sindacalizzati spiega circa il 40 per cento dell’aumento del reddito nazionale accaparrato dai “top 10”.


Potremmo trarne almeno tre conclusioni. 1) La desindacalizzazione indebolisce le classi inferiori e medie (meno protette, con minore potere contrattuale) e accresce automaticamente la parte di reddito che va ai redditi più alti, aumentando le ineguaglianze; 2) la concorrenza è fattore importante (consumatori), ma non bisogna demolire in nome della concorrenza le istituzioni che stabilizzano l’economia e limitano l’aumento delle ineguaglianze, come i sindacati; 3) se i sindacati sono uno strumento per ristabilire i rapporti di forza tra lavoratori e proprietari e per ridurre le ineguaglianze, forse è necessario riflettere sulle soluzioni che permettano (anche politicamente) di accrescere e non di emarginare la sindacalizzazione.

Pubblicato il 

05.11.15
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