Le informazioni relative alle complesse operazioni internazionali avviate per distruggere l’arsenale chimico di Assad hanno portato il governo italiano a precisare che nel porto (civile) di Gioia Tauro transiteranno 560 tonnellate di agenti chimici bellici. Una quantità che non sembrerebbe dover inquietare più di tanto, considerando, come ha candidamente argomentato il ministro Lupi, che «ogni giorno nei porti italiani vengono movimentate 2.000 tonnellate di agenti chimici della stessa pericolosità».


Questo dato statistico pare in verità allarmante, anche al di là del contesto specifico. Esso è decisamente rivelatore del paradossale legame ancora  esistente, nonostante le buone intenzioni della green economy, fra il mondo della produzione tecno-industriale e la sua distruttività. È insomma l’amissione che la gestione “normale” del traffico mercantile, e della produzione che esso presuppone, comporta quotidianamente la manipolazione di un potenziale distruttivo superiore (e superiore di quasi quattro volte) a quello di un arsenale di yprite e di gas nervini. Certo, gli scopi per cui i pericolosi agenti chimici sono prodotti, trasportati e scambiati, di regola sono intesi come economicamente produttivi, e in quanto elementi e fattori della crescita vengono giustificati in ultima istanza, in ordine alla costruzione di uno Stato del benessere. 

 

Ma proprio per questo, con una domanda forse impopolare, ci si deve domandare se questo (smantellato) welfare non serbi comunque in sé, ancora sempre, un più o meno mediato warfare. Un distruttivo stato di guerra, intanto, ancora contro l’ambiente? «La tecnica di cui abbiamo disposto sino ad ora – ammoniva Ernst Bloch – sta nella natura come un esercito di occupazione in terra nemica, non sa nulla dell’intero paese». Proprio per questo, le conquiste dell’esercito tecnico-industriale, prive di consapevolezza ambientale, si sono dimostrate insostenibili, autodistruttive. Basti ricordare che il problema dello stoccaggio delle scorie radioattive, nonostante l’eventuale ricorso a futuristici bunker negli strati geologi più profondi, resta oggi tutt’altro che risolto.


Ma l’analogia fra la tecnica di cui disponiamo e l’esercito di occupazione, ha un significato anche storico-sostanziale. Parla di una scomoda verità, di una violenza d’origine, proveniente da quella prima guerra mondiale o totale, di cui proprio quest’anno si celebrerà il centesimo anniversario. La modernità tecnologica infatti si è accesa sotto il segno non solo di un legame con il produttivismo capitalistico (Marx), ma anche sotto la spinta della distruttività bellica, se è vero che un secolo fa furono proprio le assurde “necessità” espansivo-imperialistiche di guerra  a scatenare e a perfezionare innovazioni tecnologiche di ogni sorta, dai sottomarini all’aviazione, dalle tecniche di ricognizione a quelle della costruzione dei bunker in calcestruzzo, all’armamentario chimico.

 

Con esiti non solo distruttivi, ma non di rado anche immediatamente autodistruttivi. Al punto che le prime mitragliatrici montate sui biplani, non sincronizzate con l’elica, abbatterono spesso i piloti stessi che ne facevano uso. E al punto che, ulteriormente, nelle prime utilizzazioni dei gas, sui campi di battaglia di Verdun e di Ypres (donde il nome stesso di yprite), essi si rivelarono mortali non solo verso “i nemici”, ma anche verso gli “amici”: gli stessi gas, al mutare del vento, eliminarono insomma anche  centinaia e centinaia dei “propri uomini”. Sui campi s’inaugurò così quella tragica esperienza dell’assurdo poi spesso criminalmente riproposta. 1914-2014: siamo sicuri di saper separare più essenzialmente, ora, crescita e autodistruzione?

Pubblicato il 

23.01.14

Edizione cartacea

Nessun articolo correlato