La guerra dell'embargo

A partire (forse) dal prossimo giugno l’ambasciata svizzera all’Avana potrebbe finalmente liberarsi del compito di rappresentare gli interessi diplomatici degli Stati Uniti a Cuba.

Dopo 54 anni: fu infatti con una lettera datata 4 gennaio 1961 che Christian Herter, il segretario di Stato del presidente Dwight Eisenhower che aveva appena rotto le relazioni con il regime di Fidel Castro, chiedeva al governo elvetico «di assumere la rappresentanza diplomatica e consolare a Cuba per conto del governo degli Stati Uniti».
Dopo 5 mesi di incontri e negoziati, pare imminente l’annuncio della decisione delle due parti di ristabilire i contatti diplomatici pieni e riaprire le rispettive ambasciate nelle due capitali.


Inutile girarci intorno e arzigogolare, come stanno facendo in tanti che non si rassegnano all’evidenza.
Cuba ha vinto la guerra dei 50 anni, contro gli 11 presidenti che da Eisenhower a Obama si sono succeduti alla Casa Bianca. L’undicesimo ha avuto il coraggio e il valore (riconosciuti anche da Raúl Castro), o forse la decenza, di riconoscere che l’embargo imposto nel 1960 e poi divenuto nel ’62 il criminale “bloqueo” che ha asfissiato Cuba e i cubani, non ha funzionato nel suo obiettivo primario: quello di rovesciare il regime comunista. Anzi, il blocco ha semmai avuto l’effetto contrario: di alimentare e cementare il regime cubano nei periodi più duri (oltre che, en passant, di favorire il business di Cina, Russia e Unione europea a scapito degli USA).
Con tutti i suoi problemi, le sue pecche, i suoi errori, Cuba è ancora lì e ha dato un esempio straordinario all’America latina e al mondo. Ha ragione Franco Cavalli a scrivere sull’ultimo numero di area che “senza Cuba non ci sarebbe stata una rinascita progressista in America latina”.


Dopo 50 anni (55 per la precisione), Cuba ha vinto la guerra con gli Stati Uniti d’America.
Ma, su un altro piano, le guerra continua. Molti nodi sono ancora sul tappeto. L’embargo che continua e che può essere cancellato solo dal Congresso, dominato ora dai repubblicani che promettono fuoco e fiamme. Il futuro della base Usa di Guantánamo, concessa nel 1903 in “locazione perpetua” agli Usa dal loro agente all’Avana, il presidente cubano Tomás Estrada Prada. Il ruolo della “società civile”. Il sistema a partito unico. L’accesso a internet.


Le riforme avviate da Raúl Castro non erano evitabili né rinviabili. La rivoluzione, dopo mezzo secolo, era stanca, aveva bisogno urgente di una “modernizzazione”. Le riforme vengono dall’alto e sono attese con ansia dal basso, dove però c’è il terrore che i successi consolidati – istruzione, sanità e welfare – vengano sacrificati sull’altare della “economia socialista di mercato” che si profila all’orizzonte. Quale sarà il modello? Quello cinese o vietnamita: mercato libero e partito unico? Il congresso del Partito comunista, fissato per l’aprile del 2016, dovrà dare alcune risposte e vedrà forse l’uscita di scena di Raúl, subentrato nel 2008 al fratello Fidel, e della “generazione storica” per dare strada a un cambio generazionale (si fa il nome di Miguel Diaz-Canel, 55 anni, primo vicepresidente).


Un passaggio critico sarà la riunificazione dell’ormai insostenibile doppia moneta: il peso cubano e il peso convertibile, il cuc, adottato nel ’94 nel tentativo di frenare il mercato nero del dollaro. Il fatto è che la gran parte della popolazione cubana viene ancora pagata in pesos cubani (1 cuc uguale 25 pesos cubani) mentre deve pagare tutto o quasi in pesos convertibili. Raúl nell’ottobre scorso ha annunciato un piano in cinque fasi ed entro il 2016 dovrebbe arrivare il “giorno zero” in cui il cuc sparirà. Non sarà una sparizione indolore.
Cuba ha vinto la sua guerra ma è chiaro che corre sul filo. Dice Luis René Fernández, professore dell’università dell’Avana, «l’economia deve necessariamente divenire più efficiente ma nessuno può permettersi di ignorare i nostri principi, altrimenti ci ritroveremo sommersi da uno tsunami di capitalismo che spazzerà via tutta l’isola».
Nella guerra forse conclusa con gli Stati Uniti e nella nuova guerra per le “riforme”, la Chiesa cubana del cardinale Jaime Ortega e il Vaticano del cardinale Bergoglio hanno avuto – e avranno – un ruolo da protagonisti.
Neanche papa Woytjla, il “terminator” di regimi comunisti, riuscì a scalzare il sistema cubano e anzi, nella sua visita del 1998 trovò un inatteso feeling con Fidel e ripartì con la famosa frase “Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba” che suonava più come un monito al suo amico Ronald Reagan con cui tanta sintonia aveva trovato in Centramerica. Papa Ratzinger, che da cardinale era stato il Torquemada di Woytjla, nella sua “visita apostolica” a Cuba nel 2012 non lasciò grande segno. La svolta è arrivata con Francesco, il papa latino-americano. Con Bergoglio a Roma il Vaticano (insieme con il Canada, storicamente vicino a Cuba) ha assunto un ruolo di “facilitatore” di primo piano nella mediazione con gli Usa di Obama: lettere, incontri, il colloquio a quattr’occhi con Raúl in Vaticano del 10 maggio scorso, fino al gesto estremamente simbolico della tappa cubana prima di andare negli Stati Uniti a incontrare Obama, nel prossimo settembre. Ma la posizione “critica però non ostile” del cardinale Ortega (aborrita dall’opposizione anti-castrista più radicale) avrà dei costi. Quali? Non ancora chiari ma prevedibili. Forse non proprio un partito cattolico, ma televisione, internet, scuole, chiese, spazi, presenza… Di certo non sarà gratis.


Bergoglio ha fretta perché dice che “il suo sarà un pontificato breve”, Ortega ha fretta perché va per gli 80 anni e dovrebbe già essere in pensione, Obama ha fretta perché nel gennaio del 2017 dovrà lasciare la Casa Bianca, Raúl ha fretta perché ha 84 anni e al massimo nel 2018 lascerà l’incarico. Intanto la storia corre e negli ultimi mesi ha preso un ritmo frenetico. Ma Cuba è ancora e sempre lì. A testa alta.

Pubblicato il 

20.05.15
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