Schmidheiny e l'America latina

“Uno dei più generosi filantropi in America latina”. Così il Wall Street Journal definiva Stephan Schmidheiny nel 2002, quando l’inchiesta del giudice Raffaele Guariniello era partita da poco ed erano ancora lontane le storiche sentenze del 2012 e del 2013. Mr Eternit si diceva indignato per l’affronto alla sua reputazione e al «valore di quanto sto facendo» e concludeva, con l’arroganza dell’intoccabile: «Ve lo prometto: non finirò mai in una prigione italiana. Ogni tanto mi guardo allo specchio e posso sentirmi fiero di quello che ho fatto». La stessa sicumera della recente intervista alla Nzz am Sonn­tag (articolo correlato). In prigione forse no. Ma il 2014 potrebbe essere il peggior anno della sua vita. Perché ora l’obiettivo delle “sue” vittime (in ansiosa attesa della sentenza della Corte di Cassazione italiana, terzo e ultimo grado di giudizio, prevista entro l’anno), punta dritto a quello che qualcuno ha definito il “suo patrimonio immateriale”. Smantellare pezzo per pezzo l’operazione scientifica di “sbiancamento” e “rilavaggio” della biografia che si è costruito in questi ultimi 20-25 anni di scorribande, specialmente per l’America latina.


L’attacco alla sua biografia potrebbe rivelarsi il colpo di grazia per un personaggio tutto sommato tragico. Un eroe “visionario” per alcuni (e per sé stesso), per altri un criminale abietto che ha costruito il suo impero sulla morte di centinaia di migliaia di persone.
L’America latina è entrata presto nella sua vita. È stata, ed è, l’obiettivo privilegiato di questo conquistador di fine secolo XX e della sua “filantropia imprenditoriale” socio-ambientalista.


Nel ’69, nel periodo più cruento della dittatura militare in Brasile, a 22 anni fu mandato a “fare pratica” alla Eternit Brasil, la fabbrica di cemento-amianto che la famiglia possedeva a Osasco, nell’hinterland di San Paolo. Nel ’67 gli Schmid­heiny, insieme con i loro soci belgi, avevano aperto la miniera di amianto bianco di Canabrava, stato di Goiás, una delle più grandi del mondo.


Quasi a leggere un capitolo di Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri di Naomi Klein, nel ’76, già a capo del Gruppo Svizzero Eternit (SEG), in Nicaragua partecipò alla ricostruzione di Managua, distrutta dal terremoto del ’72, condividendo al 40% con il dittatore Anastasio Somoza la fabbrica di cemento-amianto in loco, la Nicalit; e in quello stesso ’76, dopo l’altro devastante terremoto in Guatemala, paese in cui la dittatura militare e la guerra civile fra il ’60 e il ’96 provocarono 200.000 morti, la Duralit degli Schmidheiny inondò la ricostruzione con tonnellate di amianto-cemento.


Nell’82 entrò nel “greenfield”, la versione agraria del “greenwashing” imprenditoriale, mentre era “in vacanza” nel Cile di Pinochet e dei Chicago Boys, comprando a prezzi di saldo (i primi) 4.000 ettari di boschi e una segheria nella regione meridionale del Bio-Bio dove gli indigeni mapuches rivendicano da sempre le terre comunitarie sottratte con la violenza e l’inganno dai “winkas” (i bianchi, anche se con una ripassata di verde).
Una «intuizione pionieristica» che «mi fece pensare al nesso fra impresa e ambiente» e lo lanciò in «un territorio filantropico inesplorato».


Nel ’92 si regalò anche un paio di isole caraibiche – il Cayo Mayor e il Cayo Paloma – nell’arcipelago dei Cayos Cochinos, al largo della costa nord dell’Honduras, per 200 anni zona di pesca dei garífuna, l’etnia afro-discendente dell’area. La sua vocazione filantropico-ambientalista fu prontamente recepita dal presidente honduregno Rafael Callejas, che dichiarò le isole “riserva biologica”. Per i garífuna questo significò rigide restrizioni alla pesca, repressione militar-poliziesca e sgomberi.
Business is business. Però incroci che stridono per uno che si proclama filantropo, umanista, socialmente motivato, verde e via fantasticando.


Nel suo (lungo) processo di conversione alla filantropia, mentre annunciava la fine dell’uso dell’amianto-killer nelle sue fabbriche europee e la vendita di “tutte le partecipazioni nel Gruppo Eternit svizzero”, conclusa “alla fine degli anni ’80”, el Señor Eternit seminava quel veleno mortale nei paesi terzi, più facili da penetrare, e inondava di fondazioni socio-ambientaliste l’America latina.


La fabbrica di Osasco fu venduta ai francesi della Saint-Gobain nell’89. La miniera di Canabrava fu espropriata e nazionalizzata nel ’98. Però, secondo la brasiliana Fernanda Giannasi, ex-ispettrice del Ministero del lavoro e implacabile pasionaria nella guerra contro la fibra-killer, «tutto lascia credere che Schmidheiny abbia continuato indirettamente, tramite sue imprese camuffate, a partecipare al business dell’amianto in Brasile almeno fino al 2001». Se l’amianto comincia a essere proibito anche in alcuni paesi dell’America latina – Argentina, Cile, perfino il povero Honduras –, il Brasile, a oggi, non fa parte della lista dei 66 paesi del no: è proibito solo in 6 stati su 26, i più sviluppati.


Stesso discorso per Nicaragua e Guatemala. Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto.
Discorso diverso ma poi non tanto per il “greenfield” in Cile. I 4.000 ettari iniziali sono diventati 120.000, la segheria è diventata attraverso acquisizioni e giochi azionari (la Forestal Millalemu, la holding Terranova guidata da Hernán Büchi, cileno di origine svizzera, ex ministro delle finanze di Pinochet) la multinazionale Masisa, seconda produttrice di legname dell’America latina. Masisa ha istituito una divisione “eco-energia” per la produzione di biomassa forestale, ha ottenuto la “eco-certificazione” del Wwf e del Consiglio per il Trattamento Forestale (Fsc). Ma, a parte il discorso sui diritti negati dei mapuches, il bosco vergine è scomparso, perché queste piantagioni sono monocolture di pino insigne ed eucalipto per la produzione della cellulosa. Nel ’99 la Forestal Millalemu ha cominciato a usare bio-tecnologia sperimentale per la crescita rapida di pini ed eucalipti geneticamente modificati. Non male per un filantropo socio-ambientalista.

 

 

Ecco il sistema di scatole cinesi in cui operano le sue fondazioni

Dice di sé: «Negli anni ’80 Stephan Schmid­heiny gettò le basi della filantropia imprenditoriale con le sue fondazioni Fundes e Avina… Con la creazione di VIVA Trust nel 2003,  una volta di più entrò in un territorio filantropico inesplorato».


Ma perché si è gettato sulla filantropia in America latina? Escludendo il movente del pentimento, le risposte possibili sono  tre. Le prime due lo riguardano come capitalista globale e “visionario”: continuare e ampliare il suo business in altri ambiti socio-economici; più in generale legittimare il capitalismo con le messe cantate su “responsabilità sociale”, “eco-efficienza”, “sviluppo sostenibile”. La terza e più prosaica: proteggersi da un futuro minaccioso  per via della “persecuzione giudiziaria” (in Italia ma non solo),  diversificando il portafoglio e mettendolo in sicurezza.


La sua carriera di filantropo in America latina ­­– e la ripulitura dell’immagine – cominciò nell’84, con la creazione a Panama della Fundes, fondazione “per lo sviluppo sostenibile” di micro-imprese del settore privato.
Poi un crescendo wagneriano fino al 2001, quando istituì la fondazione Avina, sempre a Panama, con la “missione”  di «contribuire allo sviluppo sostenibile dell’America latina favorendo la costruzione di vincoli di fiducia e alleanze fruttifere fra leader sociali e imprenditoriali». Il clou fu il 9 ottobre 2003 a San José di Costa Rica («la mia seconda patria»), giorno in cui consegnò «ai paesi del terzo mondo un lascito di 1000 milioni di dollari», secondo un’aulica cronaca giornalistica. «A che serve la ricchezza?», disse allora, «Io cerco di usarla in vita per il bene comune». La chiave di volta fu VIVA Trust (VIVA sta per Visión y Valores), una fiduciaria in cui versò il miliardo proveniente dal Grupo Nueva, la holding in cui aveva piazzato le sue tre principali imprese in America latina: Masisa (legno), Amanco (tubi), Plycem (materiali da costruzione), dai cui profitti doveva essere finanziata Avina. Un gioco di scatole cinesi. Sospetto.


Nell’Annual Report di Avina per il 2010 si legge che VIVA Trust è la sua prima fonte di finanziamento, poi la Fondazione Bill and Melissa Gates, Coca Cola, Inter-American Development Bank,  Pepsi Cola… Ma Vía Campesina accusò la Fondazione Gates di comprare azioni  della Monsanto, titolare del 90% dei semi ogm. Avina è l’alleato strategico di Ashoka, attiva in Spagna, fondata da un “imprenditore sociale”, Bill Drayton, e vincolata alla banca J.P. Morgan e alla McKinsey, multinazionale delle consulenze… ma ci furono denunce che Avina e Ashoka nell’ultimo decennio  si sono infiltrate «in un modo o nell’altro» in una decina di movimenti  alternativi e anti-capitalisti.


In Argentina Avina conta fra i suoi “soci leader” Gustavo Grobocopatel, “il re della soya transgenica”.  Indymedia  ha bollato Avina e Ashoka come «una rete di transfughi, finanziata dalle transnazionali». Il Grupo de Reflexión Rural argentino ha definito Avina e Ashoka «il nemico della Terra Madre».
Esagerazioni? Estremismi? Avina è  davvero“la filantropia del grande capitale” e un cavallo di Troia?
Con alle spalle una storia come la sua,  che non ha mai abiurato, sono in molti a non credere ai buoni propositi di Mr. Eternit di usare la sua ricchezza «per il bene comune» dell’America latina.   

 

Pubblicato il 

02.05.14

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