La proliferazione di spazi in disuso, dismessi, abbandonati dalla funzione per cui erano sorti, caratterizza ampia parte dei paesaggi urbani contemporanei.


La delocalizzazione della produzione industriale verso realtà nelle quali è garantito uno sfruttamento a minor prezzo della forza lavoro, il passaggio dal fordismo al post-fordismo e non da ultimo la speculazione edilizia, animata dalla distruzione creatrice e dai “muri che crollano” già cari a Schumpeter, suscitano un paesaggio fatto di resti, scarti e scorie, rovine architettoniche di ogni tipo e dimensione.

 

Non occorre pensare alle metropoli, a Detroit o agli spazi dell’abbandono descritti nell’Underworld narrato da un maestro della letteratura contemporanea come Don de Lillo. Anche la città diffusa europea, e la città esplosa lombarda e insubrica nelle quali viviamo, è cosparsa e bucata di spazi dell’abbandono, impianti, fabbriche ed edifici degradati, terrain vague che nella loro latenza potrebbero offrire, se adeguatamente riciclati, una miniera preziosa per operare una frenata nel consumo di suolo.

 

Da alcune stime si apprende che nella sola Milano, la Milano dell’Expo,  si conta un’offerta di oltre 1 milione di mq di scali ferroviari abbandonati, circa 50 cascine e capannoni agricoli in disuso, oltre 70 palazzi vuoti in città, e le agenzie immobiliari lamentano che circa 885.000 mq di uffici risultano sfitti. Ma è di questi giorni anche l’invocazione dell’esercito e della più dura repressione nei confronti di migranti e senza casa colpevoli di occupazioni in questo contesto. Sullo sfondo dei dati citati, è però evidente che ciò che occorrerebbe, diversamente dalla paradossale retorica della forza e degli sgomberi, sarebbe una diversa politica del costruito, una politica ispirata, piuttosto che alla logica della dismissione, del consumo e del degrado, a quella di un riuso negoziato di edifici e spazi.

 

Se immaginare una politica pubblica del riuso per cercare di risolvere il più complesso problema della redistribuzione sociale dello spazio nel tempo della globalizzazione potrà sembrare un po’ velleitario, lo è sicuramente molto meno intraprendere la strada del riuso, in particolare quella del cosiddetto “riuso temporaneo”, per cercare di risolvere le esigenze di spazio che giovani, movimenti, associazioni, progetti culturali, nuovi artigiani, artisti ecc. non possono soddisfare nell’ambito della città dominata dal mercato immobiliare.


Con il titolo “Re-Bel Italy”, sigla che sta al tempo stesso per “Rifacciamo bella l’Italia” ma anche per “Ribelliamoci all’abbandono” un gruppo di attivisti, ricercatori e artisti ha promosso, qualche mese fa, un interessante Manifesto per il riuso di spazi in abbandono o sottoutilizzati, dando vita a una rete per la mappatura, la condivisione e l’organizzazione di progetti di riuso temporaneo.

 

A questo manifesto e al sito www. temporiuso.org ha fatto seguito di recente la pubblicazione di un vero e proprio Manuale per il riuso temporaneo di spazi di abbandono. Scritto da Isabella Inti, Giulia Cantalupi e Matteo Persichino, pubblicato da Altreconomia, questo manuale, opportunamente rivolto alla pratica, ambisce a spiegare come salvare dal degrado, attraverso il riuso temporaneo, con progetti abitativi, culturali, sociali, quegli spazi vuoti delle nostre città che vanno riconosciuti come “riserve urbane per sperimentare sogni collettivi”. Ma non è, e non deve restare soltanto un sogno: fra i meriti di questa iniziativa, vi è quello di chiedere alle pubbliche amministrazioni che le pratiche del riuso temporaneo entrino a far parte delle agende delle politiche pubbliche dei Comuni. Un modello che evidentemente potrebbe essere interessante sviluppare anche nella Svizzera italiana.

Pubblicato il 

06.11.14
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