Globalizzazione

Gli sposi non potevano essere più diversi. Da una parte il Ciad, uno degli Stati più poveri del mondo, dove il 38% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno. Dall’altra Glencore, la multinazionale svizzera che impiega 155.000 persone e la cui cifra d'affari è stata di 153 miliardi di dollari nel 2016. La storia di questo matrimonio d’affari è un classico esempio di quella che viene definita “la maledizione delle risorse”, ossia quel paradosso per cui gli Stati ricchi di materie prime e le loro popolazioni non beneficiano delle entrate generate dalle ricchezze naturali a causa soprattutto della corruzione endemica. Nella suddivisione dei beni, il padre-padrone della sposa – il presidente del Ciad – mette in dote la ricchezza da poco scoperta, il petrolio; lo sposo – Glencore – fa valere la sua liquidità e, a suon di miliardi, ottiene pressoché la totalità dei diritti di esportazione di questo stesso petrolio.


A raccontare la maledizione del petrolio ciadiano e le complicità di Glencore nell’alimentare un regime corrotto e nepotista è un recente studio pubblicato dall’ong svizzera Swissaid, da anni attiva in Ciad con dei progetti di sviluppo. In questo paese il petrolio è un’attività relativamente recente: è solo dal 2003 che il greggio viene estratto e che l’inaugurazione di un oleodotto ne permette il traporto fino all’Atlantico. Il boom petrolifero avrebbe dovuto permettere un avvenire più roseo al paese. In realtà è successo il contrario. Nell’indice dello sviluppo umano, il Ciad ha continuato a perdere posizioni tanto che, nel 2016, figurava al terz’ultimo posto a livello mondiale. Eppure, ogni anno, la vendita del greggio garantisce un’entrata di più di 13 miliardi di dollari alle casse pubbliche, ciò che rappresenta circa i due terzi del budget del paese. Come è possibile? Dove finisce tutto questo denaro? Impossibile saperlo con certezza. Alle nozze dorate tra il Ciad e Glencore, la trasparenza non è stata invitata.


Per cercare di saperne di più, Swissaid ha analizzato l’operato dell’impresa pubblica Société des hydrocarbures du Tchad (Sht). È quest’ultima che, dal 2006, controlla il commercio del greggio. Nel 2012, per esportare questo greggio sui mercati internazionali, la Sht sceglie un partner esclusivo, Glencore, già attiva nel paese in qualità di produttore. Oggi la multinazionale basata a Zugo è ormai il partner d’affari principale e il cliente esclusivo della Sht. Ma non solo: Glencore, agendo de facto come una banca, ha prestato dal 2013 più di due miliardi di dollari al governo di N’Djamena. Prestiti che a loro volta sono rimborsati con delle forniture di greggio da parte della Sht. Un sistema che, con la diminuzione del prezzo del petrolio, ha spinto lo Stato sotto il giogo del debito e della dipendenza cronica da Glencore: la gran parte dei redditi petroliferi serve ormai a rimborsare i prestiti mentre il paese, sempre più vincolato dal petrolio, è ormai attanagliato da una profonda crisi economica.


Nel rapporto, va detto, non emerge nessun comportamento illegale da parte di Glencore. Swissaid punta però il dito contro la società svizzera, accusata di non fare abbastanza in termini di trasparenza. La Sht non pubblica infatti né bilancio annuale né risultati finanziari e non è sottoposta a nessun audit esterno. Si tratta insomma di un’impresa opaca, controllata dal clan del presidente Idriss Déby, al potere da 26 anni, e noto per avere trasformato il Ciad in una SA a conduzione famigliare. Una situazione che sembra non inquietare Glencore che, secondo Swissaid, resta «fortemente implicata in un sistema dove il denaro dell’estrazione petrolifera non arriva alla popolazione locale». Dal canto suo Glencore ha reagito allo studio affermando che le loro attività «sono fortemente regolamentate».


La trasparenza è il miglior mezzo per lottare contro la corruzione nel commercio di materie prime. Negli ultimi anni, a livello internazionale, sono state lanciate alcune iniziative per fare in modo che i flussi finanziari tra le imprese, i governi e le entità statali vengano resi pubblici. Ma questi progetti, come l’Exctractive Industries Transparency Initiative (Eiti) che riunisce diversi paesi produttori di materie prime e impone loro e alle imprese estrattive la pubblicazione dei pagamenti, non basta. Per questo le ong come Swissaid o Public Eye, chiedono che la Svizzera, Stato che ospita le principali società di commercio di materie prime, si assuma le sue responsabilità. Il Consiglio federale, riconoscendo la «responsabilità particolare» della Svizzera ha presentato a novembre un progetto per rendere più trasparente il settore delle materie prime e obbligare le imprese a pubblicare in un rapporto i pagamenti alle entità statali che superano i 100.000 franchi. Il problema è che questo progetto di legge, così come presentato dal Governo, avrà un impatto praticamente nullo.

Pubblicato il 

22.06.17
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