L'editoriale

«Chi ero io? Ol rotàm Giacomin. Un rottame e come me lo erano anche tutti i miei colleghi. Così ci chiamava il nostro “padrone” per toglierci il valore di essere umani e al contempo la dignità». Lavoro tanto, da sfinimento, quasi da sentirsi scoppiare, come su un ottovolante che corre all’impazzata e da cui non si può mai scendere.«Lavoravo dal lunedì al lunedì» ci confida Giacomino. Non capiamo: «Come dal lunedì al lunedì?». Insistiamo: «Che cosa vuol dire?». La risposta è semplice quanto disarmante: ogni giorno della settimana per 16/18 ore perché un rifiuto della società non ha diritti. «Ho avuto quasi voglia di morire» aggiunge poi sottovoce con un sospiro sordo. Ci presenta un ex collega. Solleva i pantaloni: «Guardi, guardi qua, ci sono ancora i segni dei calci che mi tirava. La paga? Quale paga? Cento franchi a settimana per le sigarette, più vitto e alloggio garantito. Ero in mezzo a una strada, mi andava bene tutto».
È una vicenda di sfruttamento grave quella che viene denunciata con una querela penale depositata negli scorsi giorni alla Magistratura contro il proprietario di un’impresa agrituristica ticinese.


Doppiamente grave. Primo, perché i presunti reati sarebbero stati commessi su persone estremamente vulnerabili dal punto di vista personale. Lavoratori stranieri sfruttati e sottopagati da padroni che abusano del loro stato d’indigenza, costringendoli di fatto ad accettare condizioni di semischiavitù pur di sopravvivere.
Secondo, perché il sistema di lavoro che non sarebbe rispettoso dei contratti e delle leggi in vigore, viene praticato in un’azienda ticinese che per la sua storia professionale dovrebbe dare tutt’altro esempio.
L’imprenditore, oggetto della denuncia, gestisce infatti oltre all’agriturismo a Manno, anche la Mondino di Muzzano che commercia prodotti ortofrutticoli, vendendoli alle grandi catene di distribuzione del Cantone. La particolarità è che la frutta e la verdura sono coltivate nelle serre di proprietà dell’imprenditore, che le ha cedute in affitto al Cantone per il «reinserimento socio-professionale degli emarginati». Insomma, un’azienda sociale che gode dei contributi statali per offrire un’opportunità d’integrazione alla popolazione più a rischio, nell’ottica della lotta all’esclusione sociale.


Ma qui emerge una contraddizione di fondo. Dunque, con i soldi pubblici si può contribuire a dare dignità agli svantaggiati, ma con i propri si trattano invece i lavoratori come rottami non rispettando i loro diritti? Qualcosa di questo meccanismo non torna. Qual è in questo caso l’utilità?

Pubblicato il 

23.05.13
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