I padroni svizzeri non ne vogliono sapere di garantire ai lavoratori una vera libertà sindacale e il Consiglio federale dà loro retta rifiutandosi di  applicare una direttiva dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) volta a tutelare i sindacalisti dal fenomeno dei licenziamenti abusivi.  

Una direttiva che impone al nostro Paese di adeguare la legislazione alle norme internazionali in modo che l'ingiusta rottura di un rapporto di lavoro con un militante sindacale venga formalmente annullata e non semplicemente compensata, come avviene oggi, con il versamento di una somma pari ad alcuni mesi di stipendio (di regola tre anche se la legge prevede fino a sei). Formalmente si tratterebbe di dar seguito al Trattato numero 98 dell'Oil, che la Svizzera ha ratificato nel 1999 ma non ha mai messo in pratica nonostante due richiami formali dell'agenzia delle Nazioni Unite con sede a Ginevra.
Ed è proprio da questa sede che negli scorsi giorni, nell'ambito della 98esima Conferenza internazionale del lavoro (svoltasi tra il 3 e il 19 giugno), la questione è stata nuovamente sollevata attraverso un intervento di Vasco Pedrina (capo delegazione dei lavoratori elvetici) e un'azione simbolica organizzata dall'Unione sindacale svizzera in occasione della visita della consigliera federale e capo del Dipartimento dell'economia Doris Leuthard.
Anche perché nell'attuale contesto di crisi economica l'offensiva contro i diritti sindacali ha ripreso vigore nel nostro paese, in particolare attraverso i licenziamenti abusivi di militanti del sindacato. È capitato il mese scorso a Zurigo e Berna, dove il gruppo Tamedia ha sfruttato la ristrutturazione (una sessantina di posti di lavoro cancellati) per licenziare il presidente della Commissione del personale del "Tages Anzeiger" (dopo ventidue anni di servizio), un altro collega con funzioni sindacali e il suo omologo presso il "Bund".
Un caso simile si è consumato anche a San Gallo, dove la Benninger Karl Mayer Sa (un'importante azienda di macchine tessili) ha licenziato un sindacalista di Unia, pure lui già presidente della commissione di fabbrica, dopo trentanove anni di fedeltà.
A Ginevra invece, la direzione dei grandi magazzini Manor ha licenziato una venditrice militante di Unia per essersi espressa pubblicamente contro un progetto di revisione della legge sugli orari di apertura dei negozi (vedi anche area n° 9 del 5 giugno). In questo caso, a differenza dei precedenti in cui sono state evocate semplicemente ragioni di natura economica, l'impegno sindacale è stato esplicitamente indicato come motivo della decisione di rottura unilaterale del contratto. In più, Marisa Pralong ha ottenuto ragione dalla Chambre des relations collectives de travail (Crct, il tribunale che dirime i contenziosi derivanti dall'applicazione dei contratti collettivi di lavoro nel cantone Ginevra), che, in attesa di esprimersi nel merito della vicenda, ha sospeso in via cautelare il licenziamento e ordinato la «reintegrazione» della dipendente, facendo valere una norma del Contratto collettivo cantonale per il commercio al dettaglio che vieta esplicitamente di licenziare per ragioni sindacali. Una decisione a cui Manor ha dato seguito solo "sulla carta", visto che si è limitato a reinserire il nome di Marisa Pralong nella lista dei dipendenti e non le ha concesso di tornare a lavorare.
Nei contenuti, la storica decisione del tribunale è importante, anche se non applicabile a tutti i militanti sindacali delle imprese. In effetti, in Svizzera almeno la metà dei salariati non gode della protezione di contratti collettivi di lavoro e la maggior parte di questi non contiene alcuna disposizione specifica in materia di licenziamento dei delegati sindacali e dei rappresentanti del personale.
La via da percorrere è dunque quella di modificare la legislazione svizzera in materia di contratto individuale per introdurre il diritto alla reintegrazione piena dei delegati sindacali e dei rappresentanti eletti dei lavoratori nelle commissioni d'impresa che sono stati licenziati abusivamente.
In questo modo, la Svizzera si metterebbe finalmente in regola con la citata convenzione dell'Oil, ma il Consiglio federale non sembra intenzionato a prendere l'iniziativa.
Dal canto suo però, l'Uss, già autrice della denuncia inoltrata con successo all'Oil nel 2003, è pronta a portare la Svizzera sul banco degli accusati presso la Conferenza dell'Oil del 2010. Un banco degli accusati su cui negli ultimi anni erano seduti Paesi quali il Burma, la Cina e la Bielorussia.


Cresce la pressione sul governo

Intervista a Vasco Pedrina: «La denuncia contro la Svizzera inoltrata dall'Uss presso l'Organizzazione internazionale del lavoro dà fastidio»

«La repressione sindacale è un fenomeno in crescita in tutti i settori economici, sia in Europa sia in Svizzera». Ad affermarlo è Vasco Pedrina, già copresidente di Unia e ora vicepresidente dell'Internazionale del legno e dell'edilizia, che ha guidato la delegazione dell'Unione sindacale svizzera presente alla Conferenza internazionale del lavoro di Ginevra che si conclude oggi. E proprio in questa sede Pedrina ha messo in guardia dal pericolo che «i diritti sindacali finiscano schiacciati sotto il rullo compressore dell'attuale crisi mondiale». «Ci sono segnali inquietanti» e «la storia ci insegna che il fenomeno avrebbe delle conseguenze sociali catastrofiche», ha affermato Pedrina, ricordando come «la crisi attuale abbia origine nello smantellamento della legislazione relativa ai diritti sindacali negli Stati Uniti sotto la presidenza Reagan, che come conseguenza ha avuto un drammatico indebolimento dei sindacati, ma anche una stagnazione durevole dei salari reali che ha fatto esplodere l'indebitamento delle famiglie».
E oggi anche la Svizzera, nel contesto di crisi economica- è confrontata con una «grave rimessa in discussione dei diritti sindacali», ha sottolineato Pedrina in riferimento ai recenti clamorosi casi di licenziamento di militanti sindacali. «Ogni caso è diverso dall'altro -spiega ad area- ma è spia di un fenomeno sempre più diffuso, che tocca tutti i rami dell'economia. Non sorprende dunque trovare tra le vittime dei giornalisti, una venditrice, un collega dell'industria meccanica e uno dell'industria chimica (per il quale però siamo riusciti ad ottenere la reintegrazione)».
Si può dunque dire che si tratta di un fenomeno in crescita?
Senza ombra di dubbio. È un fenomeno che cresce di pari passo con l'acuirsi della crisi perché le aziende approfittano delle ristrutturazioni per liberarsi dei dipendenti che in questi processi possono dare in qualche modo fastidio. 
Al di là delle conseguenze per il singolo sindacalista che viene licenziato, quale segno lasciano queste decisioni presso i colleghi ?
Quando il presidente di una commissione del personale viene licenziato o indotto a licenziarsi, ai colleghi viene innanzitutto a mancare una figura di riferimento per i problemi di ordine sindacale. Ma in loro subentra anche un sentimento di paura del licenziamento e di conseguenza tendono a mettersi in una posizione attendista e non combattiva. È significativo del resto che nelle assemblee sindacali si moltiplichino le proteste e le richieste di una migliore protezione dei lavoratori.
Il sindacato come raccoglie queste sollecitazioni?
Unia al congresso dello scorso anno ha approvato una risoluzione con cui si impegna a portare avanti nel prossimo quadriennio una battaglia per ottenere  maggiore protezione a livello legislativo e contrattuale, perché in una democrazia il presidente di una commissione del personale deve potersi esporre senza la paura di venire licenziato.
In Svizzera quasi nessun Contratto collettivo di lavoro contiene disposizioni efficaci sulla tutela sindacale. Storicamente come si spiega?
Per due ragioni essenzialmente. Innanzitutto perché nei periodi di pace sociale l'esigenza di protezione non era così sentita: i casi di licenziamento erano infatti meno importanti prima dell'avvento del neo liberismo e della cultura delle ristrutturazioni. D'altro canto va detto che i sindacati hanno spesso tematizzato la questione, ma i padroni non hanno mai ceduto e quando si arrivava alla fine di una trattativa per un Ccl si preferiva sacrificare la tutela dei diritti sindacali piuttosto che un aumento salariale. Anche perché sarebbe stato difficile chiamare i lavoratori allo sciopero su questa questione. Ma ora è tempo di cambiare strategia.
Crede che le pressioni politiche esercitate attraverso l'Organizzazione internazionale del lavoro (vedi pezzo pincipale, ndr) spingano il Consiglio federale a migliorare la legislazione?
Si deve agire su vari livelli per smuovere le acque. A livello politico, la denuncia dell'Uss all'Oil è un'arma che dà fastidio al governo svizzero. Anche se da noi se ne parla poco. A Ginevra abbiamo informato attraverso un volantinaggio i tremila delegati di tutto il mondo presenti all'assemblea, i quali ora sanno  che la Svizzera non rispetta un impegno sottoscritto. Svizzera che l'anno prossimo finirà sul banco degli imputati dell'Oil, dove di solito siedono  paesi dove vige la dittatura. E questo a Berna dà fastidio, perché alla Svizzera piace apparire nel mondo come il paese dei diritti umani. Non è un caso che la consigliera federale Doris Leuthard, dopo il mio intervento alla Conferenza, si sia intrattenuta su questo tema con il direttore generale dell'Oil.
Ma questo non basterà...
È una battaglia difficile, ma non dobbiamo mai allentare la pressione. In Svizzera spesso si riescono a far passare in certi frangenti delle proposte attraverso una sorta di mercanteggiamento. È successo per esempio quando il padronato aveva bisogno della libera circolazione ed ha accetato di pagare un prezzo in termine di misure accompagnatorie contro il dumping salariale che mai avrebbe accettato.
E a livello contrattuale cosa si può fare?
Stiamo conducendo un'analisi dei contratti in vigore per capire se ci sono disposizioni "utlizzabili" e ai funzionari sindacali chiediamo di porre la questione in cima alla lista delle priorità nelle trattative contrattuali. D'altro canto abbiamo adottato una strategia offensiva per affrontare i casi venuti alla luce, correndo anche il rischio di perdere le battaglie legali e di conseguenza di creare sconforto tra i lavoratori.  Ma siamo convinti che sia questa la strada da percorere. Del resto è anche possibile che l'aumento dei casi di repressione contribuisca a far capire questa necessità anche ai padroni.



Pubblicato il 

19.06.09

Edizione cartacea

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