A briglie sciolte

Dopo l’elezione dell’Assemblea costituente, a Caracas è tornata la calma, anche se non si può escludere che sia la classica schiarita prima di una nuova tempesta. Ma per capire quanto sta avvenendo in Venezuela, devo fare un paio di passi indietro. Nel passato il paese, che ha una delle riserve più grandi al mondo di petrolio pregiato, era sempre stato controllato da una ricchissima oligarchia, mentre milioni di persone facevano la fame. Tutto ciò condusse nel febbraio del 1989 a quella rivolta, nota come Caracazo, durante la quale dalle 3000 alle 4000 persone (un numero esatto non è mai stato verificato) furono massacrate. Da lì partì quel processo di radicalizzazione di una parte dell’esercito venezuelano, che sfociò poi con l’elezione alla presidenza di Hugo Chávez nel 1999.

 

Da allora il chavismo si è misurato con la volontà popolare in ben 22 elezioni e votazioni, perdendone solo due, tra cui il rinnovo del parlamento nel 2015. L’opposizione ha sempre gridato, salvo quando ha vinto, alla frode elettorale, anche quando trasparenza e democraticità erano state verificate da osservatori internazionali, spesso diretti dall’ex presidente Usa Jimmy Carter. Nel 2013, dopo la morte di Chávez, l’opposizione, sempre più dominata dalla sua frangia estrema e chiaramente fascistoide, non riconobbe l’elezione di Maduro, affermatosi con uno scarto di poco più dell’1 per cento: subito diversi caporioni, qui da noi spesso glorificati come dissidenti, chiamarono alla protesta violenta. La caduta brutale del prezzo del petrolio ed il boicotto economico interno ed esterno, a cui bisogna aggiungere diversi errori del governo chavista (tra cui soprattutto la mancata diversificazione economica grazie alla manna petrolifera, usata invece completamente per i programmi sociali), spiegano in buona parte la crisi economica del paese, peggiorata anche da una grave corruzione, che il governo non ha mai affrontato in modo deciso.


In un paese a regime presidenziale, dopo la vittoria nelle elezioni del 2015 l’opposizione ha radicalizzato lo scontro, tentando immediatamente di modificare in senso neoliberale le leggi sul lavoro e sulla socialità, in un paese dove tutt’ora la maggior parte dei media e delle strutture produttive appartengono all’oligarchia.
Contrariamente a quanto dicono i nostri media, le violenze degli ultimi mesi, che a Caracas erano concentrate nella parte ricca della città, erano dovute soprattutto a bande di giovani, in parte sottoproletari, prezzolati dall’oligarchia, che si sono macchiati tra l’altro del linciaggio di ben 23 chavisti. Innumerevoli poi le scuole e i centri di salute gestiti da medici cubani attaccati e bruciati. Nonostante che l’elezione della Costituente non abbia potuto aver luogo in tutto il paese, più di 8 milioni di elettori si sono recati alle urne, a dimostrazione della perdurante forza del chavismo: tant’è vero che dal giorno dopo le proteste sono scomparse.

 

Ora la pressione si è trasferita sui fronti internazionali: dopo aver sempre detto che “il Venezuela ha troppo petrolio per lasciarlo diventar socialista”, adesso Washington minaccia apertamente l’intervento militare.
Nel bel mezzo di questo guazzabuglio, il Consiglio federale non trova di meglio che condannare l’elezione della Costituente (prevista dalla Costituzione venezuelana), chiedendo al governo di accordarsi con l’opposizione su un preciso calendario elettorale e richiama al rispetto di non meglio chiariti principi dello stato di diritto. Questo è il linguaggio usato dall’opposizione venezuelana, tant’è vero che Fredy Guevara, vice capo del gruppo più oltranzista, apertamente pinochetista, ha dichiarato pubblicamente “La Svizzera era rimasta neutrale anche durante la seconda guerra mondiale: ora la situazione in Venezuela è così grave, per cui il suo governo si è sentito obbligato di prendere posizione per noi”. C’è sinceramente di che vergognarsi…

Pubblicato il 

31.08.17
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