L'editoriale

Il Ticino “strapazza” il federalismo, “discrimina”, pratica del “protezionismo alla Donald Trump”, “viola le norme sulla libera concorrenza”, insomma pare essere tornato al “Medioevo”. Sono i toni usati da alcune organizzazioni economiche della Svizzera tedesca, fortemente irritate dai nuovi obblighi imposti dalla Legge sulle imprese artigianali (Lia) in vigore in Ticino dal 1° febbraio 2016, che impone a tutte le ditte del settore che operano sul territorio cantonale a iscriversi a un albo e a versare una tassa di registrazione di 600 franchi. “Tutti contro il Canton Ticino”, sintetizzava qualche giorno fa il quotidiano zurighese Tages Anzeiger in un lungo articolo che dava voce agli scontenti.


Sono reazioni da un lato certamente esagerate, in parte anche offensive, ma dall’altro estremamente interessanti, perché danno la misura di quanto poco siano conosciute nel resto del paese le gravi problematiche che investono il mercato del lavoro in Ticino. Un Cantone confrontato con gli effetti collaterali della libera circolazione della manodopera (acuiti dalla vicinanza ad un gigante di 10 milioni di abitanti in crisi profonda come la Lombardia) ma anche con la sordità e la cecità del Parlamento e delle autorità federali, che continuano a non riconoscere l’unicità della situazione (anche rispetto ad altre regioni di frontiera) e ad opporsi a misure di protezione dei salariati e del mercato realmente efficaci.


Di fronte al dilagare del dumping salariale, della sostituzione della manodopera residente con frontalieri a “basso costo”, della sotto-occupazione e della criminalità d’impresa, è normale che il Ticino cerchi, nel limite delle sue competenze, di mettere ordine imponendo delle regole del gioco, uguali per tutti: italiani, ticinesi, urani, lucernesi o grigionesi che siano.
La Lia non è certamente la panacea, ma è una risposta giusta per favorire la qualità del lavoro degli artigiani, per prevenire gli abusi e meglio tutelare i lavoratori. Essa non è una porcheria demagogica come l’iniziativa “Prima i nostri” e non ha proprio nulla di discriminatorio.


Basti pensare che la sua adozione, in particolare l’obbligo per ogni artigiano di iscriversi all’albo (dopo aver dimostrato di possedere determinati requisiti professionali e personali), ha consentito di far emergere la bellezza di 2000 ditte ticinesi, tra falegnami, pittori, gessatori, piastrellisti, vetrai, giardinieri e altri, che precedentemente operavano nell’ombra e sfuggivano a qualsiasi controllo. E nel contempo si è assistito a un importante calo del numero di lavoratori autonomi italiani, i cosiddetti “padroncini” che quotidianamente varcano il confine a bordo dei loro furgoni per eseguire lavori a un terzo delle tariffe applicate dai colleghi ticinesi.
Per quanto attiene alle ditte della Svizzera centrale e dei Grigioni che sono sul piede di guerra (probabilmente in parte vittime di un’informazione carente da parte delle autorità ticinesi), va sottolineato che la Lia va anche nel loro stesso interesse, perché in un mercato ticinese disastrato rischiano seriamente di “non battere più un chiodo” a sud delle Alpi. E poi devono essere consapevoli che la concorrenza sleale d’oltre frontiera può arrivare, senza troppi preavvisi, anche ad Aldorf o a Mesocco. E anche oltre.
Poi, forse, la situazione e le ragioni del Ticino godranno di maggiore comprensione anche nel resto della Svizzera.

Pubblicato il 

08.02.17
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