Il reportage

Accostiamo l’auto sulla minuscola piazzola posta a margine di una strada sterrata senza nome, poco lontano dal villaggio di Skočić e dalla carrabile per Zvornik. Siamo in Repubblica Srpska, entità territoriale della Bosnia ed Erzegovina a maggioranza serba. Poco più a valle osserviamo il corso della Drina, e più in là i primi centri urbani della Repubblica di Serbia. Attorno a noi si estende un minuscolo agglomerato di case abbandonate, in gran parte ricoperte da vegetazione spontanea fuori controllo.


Arriviamo da Tuzla assieme a Zijo Ribić, unico superstite di una famiglia di “rom neri”, musulmani, distinti dai ‘rom bianchi’ di fede ortodossa. «Questa è casa mia, ci vivevo con i miei genitori, le mie sorelle e il mio fratellino», spiega, soffermandosi su un edificio ormai fatiscente, oltre il ciglio della strada. «Nelle altre case attorno abitavano altri rom e parenti. Qui invece funzionava un negozietto, lì una locanda», aggiunge procedendo lento nella luce nitida del pomeriggio autunnale. «Gli adulti lavoravano duro. Non eravamo ricchi ma la sera ci si riuniva, c’era sempre della musica, si viveva bene. Finché arrivarono loro, con il buio, da quella direzione».  


La storia di Zijo è una di quelle che non vorresti mai ascoltare. Così forte e brutalmente reale da appiccicarsi all’animo, lasciando una traccia indelebile, soprattutto se ascoltata dalla voce del protagonista. Tutto è accaduto in questo centro abitato di Skočić, la notte tra l’11 e il 12 luglio 1992, quando un gruppo di paramilitari serbi fece irruzione nel villaggio. Era l’alba della guerra in Bosnia, quindi l’inizio di un triennio sconvolto da atrocità indicibili, perpetrate alle porte dell’Europa, rimasta colpevolmente passiva mentre l’utopia della Grande Serbia consumava una vita dopo l’altra. La pulizia etnica fu attuata in modo seriale, casa per casa. Il lavoro sporco compiuto dai cetnici fu agevolato da Belgrado, e nel caso di Skočić a guidare gli aguzzini c’era Simo Bogdanović detto Simo il Cetnico.

 

All’epoca Zijo aveva solo 7 anni, ma il ricordo è vivido: «Per sentirci più sicuri ci eravamo riuniti tutti in questa casa, una trentina di persone. Poi vennero i paramilitari, con i camion». Sotto la minaccia delle armi, uomini, donne e bambini furono fatti uscire nel cortile. «Hanno violentato mia sorella davanti ai nostri occhi», poi fecero lo stesso con altre due ragazze. Un uomo fu giustiziato con un colpo alla testa. Le sevizie fisiche e psicologiche proseguirono fino a quando il gruppo fu cacciato sui camion, separando gli uomini da donne e bambini. La corsa nella notte si arrestò ai margini del vicino villaggio di Malešići, e qui, uno alla volta, i rom furono avvicinati ad una fossa, quindi freddati con una pallottola o il coltello. Dopo un’attesa straziante giunse anche il turno di Zijo. «Mi spararono, colpendomi però al braccio», spiega, sollevando leggermente la manica per mostrare una cicatrice sul bicipite sinistro, all’altezza del cuore. «Siccome ero ancora vivo mi finirono con una coltellata dietro la nuca, gettandomi nella fossa». Zijo restò immobile per qualche minuto sui corpi senza vita dei suoi parenti, poi risalì il bordo opposto fuggendo nel bosco. «Morirono 23 persone. Ho perso tutto. Mia madre incinta di otto mesi, mio padre, sei sorelle e un fratellino di due anni».


Dopo una notte solo in una casa vuota, Zijo ottenne aiuto da due soldati dell’esercito jugoslavo che lo scortarono nell’ambulatorio di Kozluk: «all’esterno vidi i cetnici di Simo, così mi aggrappai alle gambe dei soldati, non volevo più lasciarli». Uno dei militari jugoslavi chiese e ottenne un mezzo di trasporto dagli aguzzini, rifiutando di lasciare Zijo in loro “custodia”. A quel punto il giovane rom fu trasportato a Zvornik e consegnato nelle mani degli osservatori Onu, quindi ricoverato nell’ospedale cittadino. «Lì ho trascorso due anni e otto mesi, poi sono stato trasferito in un centro di riabilitazione in Montenegro». Nel 2000 il ritorno in Bosnia, all’età di 16 anni, nell’orfanotrofio di Tuzla, e a 18 il trasferimento nella vicina Casa Pappagallo, struttura in cui sono ospitati giovani senza casa e famiglia. Zijo ha così proseguito gli studi alberghieri, ultimati con uno stage a Rimini, dove ha imparato l’italiano. Oggi lavora come cuoco al Tuzla Hotel, il più importante albergo della città bosniaca.
«Ogni volta in cui nella storia avviene un’esecuzione di massa, qualcuno resta sempre in vita… per testimoniare quanto accaduto». Zijo si salvò assieme a tre ragazze usate come serve dai cetnici. «Non odio quegli assassini, li ho perdonati. Voglio però che siano riconosciute le responsabilità».

 

Per questo dal 2009 è il teste principale in un processo nel Tribunale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia, a Belgrado, dove ha rivisto i carnefici. La sentenza in primo grado ha stabilito oltre ogni dubbio le responsabilità degli imputati; tuttavia, durante il ricorso alcune contraddizioni in fase di riesame dei testimoni sono bastate a modificare la sentenza per l’impossibilità di attribuire le singole colpe. Ora il processo si è concluso, spetta al tribunale operare una revisione tecnica e confermare il secondo grado, o tornare alla sentenza di primo grado.     

Pubblicato il 

21.01.16
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