La modifica della legge sul lavoro, sulla quale siamo chiamati a votare il prossimo 22 settembre, non tocca affatto una questione marginale, ma esprime in modo apparentemente solo settoriale ma in realtà strategico il tentativo di sottomettere compiutamente i tempi dell’esistenza ai tempi senza sosta della circolazione del capitale.


Lo stato di crisi, il fantasma agitato per poter liquidare di principio e di fatto lo stato sociale, costituisce senza dubbio la scenografia a partire dalla quale le lobbies interessate e i loro ligi funzionari politici cercano di legittimare, dopo la precarizzazione, anche l’introduzione della giornata lavorativa di 24 ore. Se vuoi lavorare, devi essere disposto al sacrificio... senza se e senza ma, costi quel che costi d’infelicità, di rinuncia e di psicofarmaci nella sfera delle tue relazioni personali… Un settore privo di contratti collettivi e dove è alto il lavoro “su chiamata”, dove la manodopera femminile è in larga maggioranza, è assunto a fare da perfetto laboratorio giuridico e sociale: se l’esperimento verrà accettato, è scontato che lo stato di crisi aiuterà a imporre l’applicazione del “24 ore su 24” un po’ ovunque.

 

Il piccolo supermercato accanto alla pompa di benzina sulla strada ad altro traffico è del resto uno dei luoghi-simbolo della condizione globale contemporanea, come intuì un artista come Edward Hopper, con i suoi desolati paesaggi metropolitani simili alle scene glaciali di un delitto contro l’umanità. Altro che diritto al bratwurst rossocrociato o alla luganiga: per chi ci avete preso? Contemplando la desolazione di questi non-luoghi, fra la una e le cinque di notte, anche fra Chiasso e Basilea, non possiamo che ricordare il vecchio Marx: «…sempre più il mezzo di lavoro diventa un perpetuum mobile industriale che continuerebbe a produrre all’infinito se non incontrasse ancora limiti naturali negli uomini ridotti ad aiutanti impiegati-funzionari delle macchine». Sono precisamente questi limiti umani naturali-esistenziali che con il laboratorio del minimarket perpetuo si cerca ancora una volta, in primis sul piano simbolico, di far saltare.

 

Non bastasse questa scenografia glaciale, negli argomenti a favore della modifica formulati dal Consiglio federale prende forma anche il tentativo di ingenerare, con il sacrificio, pure una sorta di ulteriore senso di colpa. Si sostiene che accettare la modifica di legge sembrerebbe essere socialmente necessario in quanto «sono molte le persone che lavorano fino a notte fonda e queste persone vorrebbero poter acquistare gli articoli dei negozi … anche fra la una di notte e le cinque del mattino» per cui «l’estensione del lavoro notturno risponde anche a un bisogno della clientela». Come dire che nel mondo della mobilitazione totale e permanente, gli acquisti, in realtà coazioni al consumo, devono poter essere onorati, come sacramenti, in modo altrettanto permanente e totale. Non è del resto questa, fra pile di stimolanti ed energy drink, la nostra libertà? La prospettiva duramente funzionalistica e sistemica, fondata sull’incremento della circolazione e dei consumi, ossia dei profitti, in questo argomento viene mascherata e contrabbandata con un ragionamento che fa leva sulla memoria del mercato come fattore di integrazione sociale, e in questo modo si finisce per raccomandare il “24 ore su 24” evocando l’ideologia dello sforzo cooperativo per il bene di tutti.

 

Come dire che se non metti a disposizione la tua vita 24 ore su 24 alle esigenze degli altri consumatori (fatti valere come la totalità del vero), questi ultimi ti sanzioneranno, non ti riconosceranno più come soggetto alla loro stregua, ma risponderanno alla tua diserzione alla chiamata permanente del lavoro, con la tua espulsione dallo spazio del rispetto e del riconoscimento sociale. Nel negozio totale, il desiderio di “staccare”, se non quello ormai indicibile dell’ozio, è insomma blasfemo e moralmente colpevole. Contro l’argomento demagogico del Consiglio federale occorre tuttavia ricordare che il mercato dovrebbe avere pretese verso i soggetti, quanto essi dovrebbero poter avere diritti verso di lui. Diritti non solo “ridistributivi”, ma al tempo stesso anche esistenziali. Dunque, un secco no alla modifica della legge sul lavoro!

 

Pubblicato il 

11.09.13

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