Se il lavoro è ridotto unicamente al suo costo (salario da versare che grava sui costi di produzione), per logica perversa il diritto al lavoro non ha più senso (in quanto si lavora solo se è necessario all’economia e alla produzione del momento) e il diritto del lavoro diventa una pretesa fuori posto (da smantellare o neutralizzare perché fa lievitare i costi). È detta in termini semplificatori, ma la realtà è questa.


Perché la realtà è questa? Da un punto di vista economico, per due motivi: perché concorrenza e competitività, divenuti due miti assoluti, lo impongono; esse si manifestano più sulla differenza di prezzo che sulla differenza di qualità o di originalità (la quale dura comunque poco tempo, presto imitata); perché con gli imperativi dell’economia dominante il maggior valore ricavato va più sui profitti, da garantire anche agli azionisti (capitale) che non alla retribuzione del lavoro. Da un punto di vista etico, per altri due motivi negativi: per l’innegabile svalutazione del lavoro come fattore umano di dignità, di inserimento e di relazione sociale; per l’inganno che si è riusciti a far passare, raffigurabile nell’equazione: più crescita più consumo più bene-essere e quindi miglior uomo. Con una contraddizione enorme, al centro della crisi economica e societaria attuale: se riduci il lavoro a un costo e rattrappisci il tal modo il reddito da lavoro, destinando invece sempre più la ricchezza prodotta in poche mani, si mette a repentaglio non solo l’equazione su cui si è fondata tutta la struttura dell’economia, ma anche la coesione sociale. La crescita non c’è più, si ritiene ormai pressoché sistematica la stagnazione; la domanda ruota su sé stessa, anche per i freni imposti allo Stato indebitatosi per compensare i redditi mancanti e le insicurezze esplodenti ovunque; l’inflazione finanziaria, quattro volte superiore al reddito creato dall’economia reale, è la dimostrazione che non si è imparato niente.


Il fatto assurdo in tutta questa storia sta appunto nella volontà di mantenerla e continuarla. Sia glorificando e rimettendo al posto di comando quelli che l’hanno ideata, mantenuta e sostenuta. Sia persistendo con metodi fallimentari nella stessa logica economica. Potremmo fare un esempio, agganciandoci ad una singolare ricorrenza. Proprio vent’anni fa il sociologo americano Richard Sennett scriveva “L’uomo flessibile”, indicando e in parte pronosticando un cambiamento fondamentale nell’economia e nelle condizioni di lavoro: la flessibilità. Un metodo venduto come necessario per cambiare il mondo del lavoro in funzione della nuova economia. Un metodo divenuto di fatto ideale per erodere il lavoro, per svalutarlo, per togliergli sempre più diritto. Quella che è andata via via instaurandosi è diventata una flessibilità “simile a una condizione di repressione, un modo per dominare e ridimensionare il lavoratore, soprattutto dopo la crisi finanziaria”, sostiene oggi Sennett.


La realtà quotidiana ci dimostra che non si può costruire neppure una sana economia sulla precarietà, sull’incertezza del lavoro o sull’assenza o l’aspettativa del lavoro secondo le necessità del padrone, ma che, soprattutto, non si può avere una cittadinanza sociale che si basi su quel principio di lavoro-non-lavoro per succhiare solo profitto. La ribellione sta crescendo e fa persino paura. La vera questione che si pone è come tornare a riavere il controllo del posto di lavoro.

Pubblicato il 

11.05.16
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