Nell'agosto di quest'anno su un cantiere di Ruvigliana si è sfiorata la tragedia. Protagonista Efrem, un giovane eritreo diventato con il suo salto nel vuoto protagonista delle cronache locali. Ci ha raccontato la sua storia.

Durante un normale controllo del rispetto delle ferie estive nei cantieri del luganese, due ispettori della Commissione paritetica trovano due persone su un cantiere di Ruvigliana privi dei necessari permessi di lavoro. Uno dei due, Efrem, si dà alla fuga. Mentre corre, vede una ringhiera. Immagina che oltre quella ringhiera ci sia un giardino. Nella foga, la scavalca e cade nel vuoto per circa 10 metri. Ad attutire il colpo, ci sono degli alberi. Efrem si salva. Non deve neanche entrare in sala operatoria. Qualche contusione e nulla di più. Un miracolo. «Si vede che la mia famiglia sta pregando molto per me» racconta Efrem a casa sua, un paio di mesi dopo l'incidente.
Perché un giovane ha rischiato di morire per un semplice controllo della Commissione paritetica? Quali meccanismi lo hanno portato a quella fuga che poteva rivelarsi per lui fatale? Paura e disperazione senza dubbio. Si capisce che Efrem nella sua giovane vita ha dovuto imparare a convivere con la paura. La paura del migrante, dell'illegale, del clandestino. Difficile scrollarsela di dosso una volta che l'hai "vissuta". Una paura che ti costringe a vivere nell'ombra per non farti notare. Una paura che lo ha accompagnato lungo tutto il suo viaggio della speranza durato un anno, quando ha lasciato la sua terra e i suoi cari.
Efrem è nato 27 anni fa in Eritrea, il paese del Corno d'Africa le cui coste si affacciano per oltre mille chilometri sul Mar Rosso. Portato a termine l'apprendistato di elettricista in Eritrea, Efrem si sposa a 18 anni. Qualche mese dopo, deve partire per il servizio militare, obbligatorio in Eritrea sia per i maschi che le femmine. La durata del servizio «può essere indefinitamente estesa» come scrive Amnesty International nel suo rapporto annuale.
Efrem svolge il servizio militare per cinque anni consecutivi. Poi, come molti suoi connazionali, intraprende la grande marcia verso la speranza di una vita migliore. Varca il confine eritreo con il Sudan e inizia la traversata del Sahara, il grande deserto, per raggiungere la Libia.
Un viaggio pieno d'insidie, dove si rischia di morire di fame e sete o di subire le razzie di banditi e poliziotti libici. Efrem incappa nei poliziotti e viene spedito nel famigerato campo di detenzione libico di Kufrah, dove vengono detenuti i rifugiati eritrei e etiopi in arrivo dal Sudan. «In quel carcere sai quando entri, ma non sai quando e come esci» dice Efrem. Denunciato per violazioni dei diritti umani da diverse organizzazioni non governative, il campo di detenzione di Kufrah, è il braccio lungo della politica dei respingimenti adottata dal governo italiano. Efrem riesce ad andarsene, trovando il modo di pagare qualcuno che lo possa far uscire.
Alcuni giorni dopo raggiunge Tripoli, la capitale della Libia e luogo di partenza di molti migranti per l'Europa. Qualche giorno d'attesa insieme ai compagni di ventura in una casetta vicino al mare e poi arriva l'ok, «si parte». La barca è una barchetta, con un motore di quaranta cavalli. Pochini per affrontare il Mediterraneo con trenta persone a bordo. «Quando il mare era agitato, la barca non si muoveva neppure, malgrado il motore girasse al massimo» ricorda Efrem. Per trovare la rotta, Efrem e un compagno di viaggio hanno acquistato un compasso. Ma due giorni dopo la partenza, per una distrazione, a qualcuno scivola in mare. A Efrem torna quindi utile l'esperienza di militare. «Da soldato mi avevano insegnato a riconoscere le stelle per poterci orientare nel deserto. Per andare a Nord bisogna seguire le sette stelle (le sette stelle dell'Orsa Maggiore, che si muovono attorno alla stella polare, ndr.)». A sei giorni dalla partenza, ecco la costa. «A un certo punto vediamo la terra. Ci sono delle persone che fanno il bagno. Ci spostiamo per approdare lontano dai centri abitati, per evitare le persone. Scopriamo di essere arrivati in Sicilia, saltando l'isola di Lampedusa come invece era previsto». In Italia Efrem resta pochi giorni.
Il giovane arriva in treno a Lugano, dove si presenta da un poliziotto per annunciarsi come richiedente l'asilo. La sua domanda  sarà vagliata per due anni, dando diritto al permesso N. Qualche mese fa, gli è stata concessa l'ammissione provvisoria, che consiste nel permesso F. Con questo permesso, le autorità cantonali possono rilasciargli un'autorizzazione a esercitare un'attività lucrativa indipendentemente dalla situazione del mercato del lavoro. «In tutto questo periodo il mio cruccio quotidiano era di trovare lavoro. Ho provato in tutti i posti immaginabili, ma se non hai il permesso B o C difficilmente qualcuno ti dà lavoro».
Trovare un'occupazione per poter mandare dei soldi alla famiglia in Eritrea. Questa la preoccupazione quotidiana di Efrem che lo assilla nei tre anni in Ticino. Per migliorare le possibilità di trovare lavoro, per sei mesi frequenta un corso per imparare l'italiano, oggi discretamente parlato. È la ricerca di un lavoro ad averlo portato su quel cantiere di Castagnola. «Volevo vedere se potevo fare il piastrellista. Mi piacerebbe molto lavorare nei cantieri, come quando facevo l'elettricista». Poi l'arrivo dei controlli, la paura, la fuga e l'incidente. «Sapevo di essere nel torto perché senza permesso. Temevo arrivasse la polizia e non avevo idea di cosa mi sarebbe successo. Quindi sono scappato». Paura e disperazione di non trovare un lavoro, sono dunque all'origine del salto, involontario, nel vuoto a Castagnola.
Oggi Efrem si pente di essere andato nel cantiere senza i permessi, sostiene però di averlo fatto in buona fede, solo per vedere come fosse il lavoro di piastrellista. Se Efrem e il suo amico fossero nel cantiere a lavorare per conto della ditta individuale di Antonio Carruba di Bellinzona (assente al momento dei controlli), lo stabilirà la magistratura nell'inchiesta non ancora conclusa.
A Efrem chiediamo cosa ne pensa dei controlli. «È giusto che ci siano. Il controllo permette di evitare che i lavoratori siano sfruttati». Efrem se ne "intende" di controlli. Il colore della sua pelle è un marchio, che lo porta ad essere fermato quotidianamente dai poliziotti. «Li capisco, fanno il loro lavoro. Ci sono diversi africani che delinquono. Però è ugualmente fastidioso essere controllati ogni giorno in mezzo alla strada senza aver commesso nulla. A volte il controllo avviene in modo gentile, altre meno». Il razzismo lo ha vissuto da quando è in Ticino? «No, non mi è mai capitato». Parlando, Efrem mi annuncia che ha trovato lavoro in un ristorante, come aiuto di cucina. Dovrebbe iniziare a giorni. Quali sono i suoi sogni per il futuro? «Non ne ho. O meglio, non riesco a pensare al futuro. Devo fare un passo alla volta. Ora inizierò a lavorare come lavapiatti. Chissà, forse riuscirò a diventare cuoco, poi ristoratore. Se Dio vorrà. Ora mi concentro sul lavoro che ho, sui soldi che posso risparmiare per spedirli a mia moglie, a mia mamma. Devo fare un passo alla volta. Oggi ho un lavoro e sono contento». 

Pubblicato il 

06.11.09

Edizione cartacea

Nessun articolo correlato