Per una volta, una lancia si può spezzare in difesa del governo Prodi, e più in generale della stagione avviata nel 2006 con la sconfitta di Berlusconi.  Finalmente la lotta per la sicurezza sul lavoro è diventata un punto all'ordine del giorno della politica italiana. Le tre maggiori cariche dello stato – i presidenti della Repubblica Giorgio Napolitano e di Senato e Camera, Franco Marini e Fausto Bertinotti – insistono dal giorno del loro insediamento sulla necessità di invertire una tendenza mortale che sacrifica la vita di chi lavora sull'altare degli affari, della competitività e del mercato globale.
Oltre alle parole, che segnalano solo un'intenzione, il ministro del lavoro Cesare Damiano e il suo collega ai lavori pubblici Antonio Di Pietro si sono impegnati su uno dei terreni minati in cui si annida l'attentato alla sicurezza: il sistema degli appalti. Si dovrebbe porre un freno al criterio infernale del "massimo ribasso" nell'assegnazione degli appalti pubblici, perché il primo ribasso certo riguarda i diritti dei lavoratori e, dunque, la loro sicurezza. Le grandi opere sono un killer, come è stato confermato con l'alta velocità, il Giubileo, le Olimpiadi bianche. Lavoro nero e grigio, subappalti senza controllo e senza assunzioni di responsabilità da parte della ditta capocommessa. Per tagliare tempi e costi si semplificano le procedure e si eliminano controlli, a detrimento della sicurezza, sul lavoro, ma anche sui capitali (le mafie si infiltrano proprio grazie allo "snellimento" delle procedure pur previste).
Tutto questo dovrebbe, se non finire, ridursi drasticamente anche grazie all'entrata in vigore prevista tra 12 mesi del Testo unico sulla sicurezza approntato dal governo e discusso in questi giorni con le parti sociali. Soddisfazione e anche qualche disappunto in casa sindacale, per il mancato (o posticipato) coinvolgimento delle rappresentanze dei lavoratori nella definizione delle linee guida della battaglia per la sicurezza. E quando il sindacato viene coinvolto, come nel caso della Conferenza governativa che si è appena conclusa a Napoli, ciò avviene ai massimi livelli confederali. Non è un fatto di astratta democrazia, è una scelta di campo: chi meglio delle Rls (rappresentanti aziendali per la sicurezza dei lavoratori) e delle Rsu (i delegati) può definire i rischi legati all'organizzazione delle singole prestazioni, nelle varie aziende e settori produttivi?
Eppure, alla conferenza governativa a nessun delegato è stata data la parola, finché dopo una vistosa protesta uno di loro non se l'è presa. Al termine di una sfilata di Rsu e Rls dei ferrovieri "vestiti" con una bara per rappresentare i macchinisti e i manutentori deceduti, Dante De Angelis (Rls licenziato per essersi rifiutato di guidare un Eurostar privo delle necessarie sicurezze e poi riassunto grazie alle lotte della categoria) è arrivato al microfono e ha portato il punto di vista di chi, come il macchinista, vive nell'incubo di vedere in lontananza sui binari un puntino arancione: è un operaio con le cuffie e il martello pneumatico che non potrà sentire l'arrivo del treno, né il suo fischio, e probabilmente morirà. Morirà perché, come ci ha mostrato magistralmente Ken Loach, invece di tre operai a fare la manutenzione – uno a monte e uno a valle per avvisare dell'arrivo del treno chi lavora con il martello pneumatico in un rumore assordante – ce ne mandano uno solo. Così si risparmia, pazienza per la vita bruciata, l'importante è la velocità con cui si viaggia e si lavora.
Infine, l'altro tasto su cui il governo ha iniziato (iniziato) a battere è la lotta all'evasione fiscale e al lavoro nero, motori di morti bianche e infortuni, soprattutto nei cantieri edili e nelle campagne. Più a rilento, nonostante la volontà politica del ministro agli affari sociali Paolo Ferrero, procede invece l'impegno per lo smantellamento della legge Bossi-Fini sull'immigrazione, anch'essa fonte di illegalità. Ma il nodo, ancora tutto da sciogliere, si chiama legge 30 sul mercato del lavoro: se non si riduce il precariato diffuso a livello di massa, morti bianche e infortuni non potranno certo diminuire. È su questo, oltre che sulla politica estera, che dal governo Prodi non sono arrivati segnali visibili di discontinuità.


Il lavoro è un campo minato

Tre, quattro morti al giorno, per un totale annuo che oscilla intorno ai 1'250 decessi. Sono i numeri della guerra del lavoro sul fronte italiano, il peggiore dell'Unione europea. Nel primi 11 mesi del 2006 hanno perso la vita nei cantieri, nei campi, in fabbrica, in ufficio, sui treni e nei binari 1'141 lavoratori. Stiamo parlando soltanto dei morti accertati dall'Anmil, l'Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro, a cui vanno aggiunti quelli sfuggiti alle statistiche così come da vivi sfuggivano a ogni controllo o contratto, e i deceduti per malattie professionale che sarebbero stati 873, la maggior parte vittime dell'amianto, negli ultimi 5 anni. Ma sono la minoranza i casi di decesso in cui è stato possibile definire un nesso causale tra lavoro svolto e malattia mortale contratta. Secondo l'Eurostat, i morti sul lavoro sarebbero diminuiti negli ultimi 10 anni del 46 per cento in Germania, del 34 per cento in Spagna e soltanto del 25 per cento in Italia. Soltanto la Francia avrebbe fatto peggio, con una riduzione del 12 per cento ma va precisato che Parigi partiva da una situazione molto meno drammatica della nostra e a tutt'oggi in Francia muoiono annualmente oltre 200 lavoratori in meno che in Italia.
Italia maglia nera d'Europa, dunque, responsabile di un quarto delle morti bianche dell'Ue pur essendo la crescita del pil minore che in Francia, Spagna e Germania. Nei primi 11 mesi dello scorso anno si sono registrati appena 14 decessi in meno rispetto allo stesso periodo del 2005, "con un aspetto – si legge nel rapporto presentato la scorsa settimana dall'Anmil – preoccupante: il calo è nell'agricoltura, mentre nel settore industria e servizi (in cui si contano il 90 per cento degli incidenti) si registra una crescita che è costata 24 morti in più (oltre il 2 per cento di aumento)". In crescita anche il numero totale di infortuni sul lavoro che ormai sfiora annualmente il milione di casi. Nel solito periodo analizzato – tra gennaio e novembre del 2006 – se ne sono registrati 865.204.
L'Inail (l'istituto di assicurazione infortunati sul lavoro) ha risparmiato negli ultimi 5 anni "oltre 272 milioni di euro". Come è potuto succedere? Presto detto: "la spesa per rendite agli infortunati… è calata del 5 per cento. Un risparmio al quale deve aggiungersi un sostanzioso aumento dei premi versati dalle imprese per l'assicurazione dei lavoratori dai rischi professionali (+15 per cento in termini reali, pari a 859 milioni di euro). I risparmi sulle prestazioni erogate – denuncia ancora l'Anmil – in favore degli invalidi del lavoro ed il surplus di risorse… hanno contribuito al risanamento del deficit di finanza pubblica". Che bel paese, quello in cui si specula sulle vittime del lavoro. Un solo esempio: Dal 2000 a oggi, "un lavoratore infortunato che perde tutte le dita della mano destra, nel caso abbia moglie, un figlio a carico e una retribuzione superiore alla media, percepisce il 14,33 per cento di rendita in meno (2.440 euro l'anno)".
È la Lombardia la regione italiana in cui si muore di più sul lavoro, seguita da Veneto, Emilia e Lazio. I decessi crescono nelle regioni del nord-ovest e del nord-est e diminuiscono nel centro e nel su del paese.

Pubblicato il 

02.02.07

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