La mano invisibile

Si può fare un discorso un poco insolito, fors’anche provocatorio, sul lavoro ? Sappiamo che il salario è la retribuzione di un lavoro. Anche attività che non ci danno un franco hanno però un valore e un rendimento. Preparare i pasti, sistemare un mobile dell’Ikea, compilare la dichiarazione d’imposta (se te la fa un fiduciario te la farà pagare), occuparsi dei figli, fare il bucato: tutto questo ha un valore economico di cui non si tiene conto. Gli economisti hanno inventato un’espressione per questi rendimenti fuori mercato: “salari fantasma”. Il ragionamento si applica anche per attività che solitamente sono etichettate come “non-lavoro”. I rendimenti del tempo dedicato alla svago comprendono il piacere che giova spesso alla salute e l’acquisizione di competenze: quando ad esempio si pratica dello sport o uno strumento musicale. Il volontariato, assai diffuso in Svizzera sotto varie forme, porta vantaggi alla comunità e dà un sentimento di soddisfazione a chi vi si dedica. Passare del tempo con gli amici, attività “non economica”, rafforza i rapporti sociali di reciprocità che permettono di accedere ad altre risorse.


Sono almeno tre decenni che, con l’economia che ci siamo dati e che volenti o nolenti abbiamo sposato, ci siamo però orientati con il nostro tempo verso una parte sempre più crescente di attività di mercato. Compensandolo, in parte, con un maggiore acquisto di beni e servizi. Con una spirale perversa: necessità di più lavoro rimunerato, necessità di più redditi in famiglia, per poter acquistare più beni e servizi, anche inutili, e metterci alla pari di quanto l’economia e la società esigono, maggior sottrazione del nostro tempo per poter ossequiare il mercato, perdita del controllo dei ritmi di base della vita quotidiana.


A questa situazione umanamente ed economicamente paradossale sta sostituendosi un’altra che rischia di esserlo di più. Da un lato l’economia imperante ci ha imposto due condizioni assolute, la produttività e la competitività. L’una e l’altra, come dimostrano tutte le indagini, si sono tradotte in uno svilimento del lavoro, visto solo come un costo, sia in termini rimunerativi sia dei diritti. Tra le conseguenze c’è stata quella di rubare più tempo all’uomo, in mille modi e forme, e quella di dirottare la ricchezza creata reale o fittizia (speculativa) soprattutto verso una parte (il capitale), creando sperequazioni che hanno danneggiato la stessa economia, tanto da creare ora con reazioni boomerang ormai sott’occhio di tutti (protezionismo, ritorno alle deregolamentazioni finanziarie, privatizzazioni intensive). D’altro lato, marciando sulla stessa linea, si tende ormai a sostituire il lavoratore, che costa, con il robot, da quello intellettuale (algoritmico) a quello materiale, utilizzabile senza limiti e con ridotti costi. È accertato che il lavoro per costruirli non compenserà mai il lavoro umano distruttibile. Dove stanno i paradossi? Se da un punto di vista finanziario lavorare meno non può reggere né umanamente (come si vive?) né economicamente (chi ha reddito per comperare la produzione?) né socialmente (se i robot non pagano imposte come si pagheranno i servizi, la scuola, le infrastrutture base?), né ecologicamente (se c’è rarefazione delle risorse naturali bisognerà vivere più poveri o trovarsi altro modo di lavorare per vivere?) siamo finiti in un bel nodo gordiano. Su tutto questo dovremo prenderci un po’ di tempo e interrogarci, anche con un po’ di sano realismo (imposte sui robot, minore focalizzazione sul lavoro, anche per le basi finanziarie delle assicurazioni sociali, uso diverso del proprio tempo, reddito di base per tutti anche per far funzionare diversamente e umanamente l’economia?)

Pubblicato il 

26.04.17
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