Per la logica una contraddizione è una sconfitta. Capita però che nell’evoluzione delle cose una contraddizione può trasformarsi in vittoria. Complicato? Ci si può spiegare.


Primo esempio. Il contingentamento della manodopera estera sarà un intervento (burocratico) dello Stato nell’economia, una interferenza nel libero gioco dell’offerta e domanda di lavoro. Ce l’hanno detto i partiti borghesi, ce l’hanno ripetuto  gli ambienti economici contrari all’iniziativa Udc. Udc che, dal canto suo, è sempre ferocemente contraria a qualsiasi ingerenza statale, tanto più se avviene su istigazione della perfida Europa. La contraddizione è palese. Quindi anche la sconfitta rispetto ai propri principi. Conclusione: si è costretti ad ammettere che ci sono casi o situazioni in cui non si può lasciare briglie sciolte al mercato. Nel caso specifico al mercato del lavoro, pena lo sconquasso. È quanto hanno sostenuto inascoltati i sindacati, bollati  però di veterosocialismo, di manovre contrarie all’occupazione, poco vicini alla “gente”.


Secondo esempio. Nella sessione invernale delle Camere federali, i parlamentari borghesi unanimi hanno confermato la loro avversione all’idea di un salario minimo. Persino una mozione adottata dal Consiglio degli Stati è stata falcidiata dal Nazionale: passino la necessità di un inventario sulle lacune verificatesi nell’applicazione delle misure di accompagnamento e la proposta di  trovare i rimedi, ma permettere di dichiarare di forza obbligatoria i contratti collettivi e i contratti-tipo di lavoro, neanche parlarne. Colti però in difficoltà, di fronte alla minaccia dell’iniziativa Udc, quegli stessi deputati borghesi e gli ambienti economici collaterali hanno cantato le lodi e i meriti del partenariato sociale, punto di forza elvetico, che rende inutile la fissazione di un salario minimo (discussione parlamentare in dicembre) ma che è il solo vero strumento da usare contro i problemi creati dalla libera circolazione e dal dumping salariale (campagna contro l’iniziativa). Anche qui le contraddizioni, seguite dalla sconfitta, sono evidenti. Conclusione: se fossero ammesse (ma la logica non è qualità di politici e ambienti economici), bisognerebbe non solo declamare il partenariato sociale ma attribuirgli un contenuto certo e istituzionalizzato, dando forza obbligatoria ai contratti collettivi, ai contratti-tipo, al salario minimo.


Terzo esempio. Una realtà  riconosciuta ormai come causa principale della crisi dell’economia e della crisi sociale e politica è la disuguaglianza sempre più abissale tra i redditi: concentrazione della ricchezza in poche mani, depauperamento progressivo in altre classe sociali con moltiplicazione di precari e lavoratori-poveri.

 

Fatto significativo, molti dirigenti di vari paesi (i più recenti riguardano Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti) propongono l’introduzione o un aumento del salario minimo. In Svizzera dovremo esprimerci. C’è però un’argomentazione contraria (già formulata a livello parlamentare) che va rilevata. Si  sostiene: il livello dei salari può essere determinato solo dalla produttività dell’impresa o di un settore; se il valore aggiunto è troppo debole, un salario imposto manderebbe tutto a ramengo; è quindi la politica sociale che deve intervenire a completare un reddito insufficiente.

 

Qui non siamo al massimo della contraddizione, ma al massimo della faccia tosta, proprio in bocca a coloro che sono i primi a deprecare gli aumenti delle spese sociali, a denunciarne gli abusi, a rivendicare una diminuzione delle imposte.

Pubblicato il 

20.02.14

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