Elezioni Americane

Gli scenari peggiori si sono avverati. L’America ha deciso di credere alle promesse vaghe e pericolose del più improbabile e pericoloso candidato della storia delle elezioni da questo lato dell’Atlantico. Con lui molti milioni di americani, anche diversi che avevano votato Obama. La rabbia contro Washington ha vinto su tutto. Ancora una volta: il presidente aveva guidato una rivolta contro il suo partito (e Hillary) e vinto. Poi il Tea Party nel 2010 e infine Bernie Sanders ci era andato a un passo. Gli americani vogliono il cambiamento e continuano a chiederlo a chiunque. Credendo a chiunque lo prometta. Qualsiasi questo sia.

 

Tre giorni prima delle elezioni, parlando con tre elettori bianchi tra i 50 e i 65 in una cittadina del New Jersey mi sono sentito dire: «I miei parenti lo votano, io no, mi fa spavento. In questi giorni infatti non ci sentiamo. Certo, se i repubblicani avessero candidato qualcuno di dignitoso, avrei persino considerato di votarlo»; «Io sono repubblicana, ma non andrò a votare, mi vergognerei di me stessa»; «Non voto Hillary, voto contro Trump». Quegli stessi tre, in Ohio, raccontavano dei loro colleghi, parenti e amici e di come fossero preoccupati del loro entusiasmo per Donald Trump. Avevano ragione a preoccuparsi.


Come ricorderemo la campagna elettorale Usa del 2016? Non come una stagione politica della speranza e della passione. Sono stati mesi brutti, di scambi feroci. Con la nota discordante di Bernie Sanders, che ha infuso speranza e voglia di partecipare a milioni di persone. A riuscirci è stato solo lui. I due contendenti finali, invece, hanno colto l’umore preponderante, quello rappresentato dai tre elettori qui sopra, e non hanno saputo fare altro, specie nelle ultime settimane prima del voto, che ricordare a tutti quanto l’avversario fosse pericoloso e corrotto o sessista, infantile, razzista.


Clinton non era partita male: qualche idea, politiche più a sinistra di quanto ci fosse da aspettarsi, il messaggio forte di una donna che per la prima volta può arrivare a occupare la poltrona più importante della politica mondiale. Poi ha condotto una campagna pessima. Incapace di creare empatia con la gente e costantemente alle prese con il problema di essere un vecchio arnese del potere di Washington in un’epoca in cui il potere è molto impopolare in ogni Paese dell’Occidente industrializzato. Presa alla sprovvista dai trionfi di Sanders e dalla carica di Trump, ossessionata dal controllo del messaggio. Nel 2008 gli stessi errori le costarono la nomination. Stavolta è andata anche peggio.


Trump ha saputo condizionare la campagna, farla propria, nel senso di manipolare e giocare con l’informazione, ottenere copertura costante grazie a sparate eccessive, attacchi, controversie. Controversie che ha saputo ritorcere contro la sua avversaria: “Se i grandi media ce l’hanno tanto con me è perché sono un outsider e a Washington non conto nulla. E perché rispondono direttamente agli ordini della corrotta Hillary”. Con questa tecnica e grazie al fatto che una parte consistente della società americana si nutre da decenni di FoxNews e talk radio conservatrici, che hanno ascolti impressionanti, Trump è riuscito a costringere Hillary sulla difensiva.
Le elezioni non sarebbero mai state in bilico se non ci si fosse messa l’Fbi, il cui direttore Comey è un ex dell’amministrazione Bush, nominato da Obama nel suo sforzo di essere bipartisan nelle questioni che riguardano la sicurezza nazionale. Sforzo mal riposto: annunciare l’inchiesta sulle mail di Clinton a dieci giorni dalle elezioni è stato un atto politico che ha condizionato la campagna e fornito munizioni ai repubblicani. Un aiuto, però, non l’aspetto determinante.


Hillary non è riuscita ad entusiasmare. Mai. Per tutti è la brava scolara antipatica, il membro delle élites che sente di poter giocare sopra le regole. I discorsi a Goldman Sachs, le controversie sui soldi alla Fondazione di Bill, il server provato di posta usato invece di quello del Dipartimento di Stato sono lì a dimostrarlo. Avrebbe potuto, ma la paura di perdere non le ha fatto scegliere nessuna strada perigliosa. Nemmeno nella scelta del vice ha azzardato: Tim Kaine è un politico capace. Ma non un motivatore di folle e nemmeno un membro delle minoranze (o un giovane).


Scagliandosi contro l’apparato politico, parlando una lingua da uomo della strada, promettendo l’impromettibile senza entrare nei dettagli, Trump ha dato voce alla destra estrema – che si è tuffata sul suo carro trovando una legittimazione mai avuta – ma soprattutto alle inquietudini di milioni di americani un po’ conservatori e un po’ razzisti che hanno mille motivi per essere scontenti. Quelli delle zone rurali e soprattutto gli operai e gli ex lavoratori industriali della “Rust Belt”, la cintura della ruggine dove dagli anni 90 chiudono fabbriche e non vengono rimpiazzate da nulla. Come in molte aree della nostra Europa attraversata da populismi che tanto somigliano a quello di “The Donald”.


La società nella quale sono cresciute queste persone – quelle cantate nelle ballate di Bruce Springs­teen – non ha mantenuto le promesse: non è bastato lavorare sodo e non lamentarsi per onorare il sogno americano. E allora, se sei un minatore della West Virginia o un commerciante in una città dove le fabbriche hanno chiuso, preferisci chi ti dice che “l’America tornerà grande”. Meglio credere in un futuro fumoso che non credere in nulla. Meglio illuderti che le miniere riapriranno. Meglio votare per uno che parla come te che per una (donna) che non riesce a starti simpatica o a farti credere che davvero sia preoccupate per i tuoi destini. In fondo, gli slogan forti della campagna democratica sono stati: “When they go low, we go high” e “Don’t boo, vote!”, pronunciati da Michelle e Barack Obama (aspettiamoci una candidatura di Michelle al Senato, se ne parla).


Cosa ci aspetta allora? È molto difficile a dirsi. La coalizione democratica, quella composta da giovani, minoranze, bianchi che hanno studiato è destinata a diventare ancora più grande per ragioni demografiche, ma continua a perdere per strada i lavoratori bianchi. E ha perso le elezioni. Queste elezioni sono state le loro, corteggiati da Trump e spesso convinti da Bernie Sanders, che alle primarie ha vinto quasi tutti gli Stati strappati da Trump ai democratici: Wisconsin, Ohio, Penn­sylvania, Michigan, dove pure Obama aveva salvato l’industria dell’auto. Vedono il mondo cambiare, vivono in città dove le fabbriche hanno chiuso e non sanno cosa aspettarsi. In campagna elettorale Clinton ha promesso l’aumento del salario minimo, strumenti di welfare e infrastrutture. Sono in parte risposte alle loro domande e a quelle delle minoranze. Come anche la riforma del sistema giudiziario e penale che discrimina i neri, e un ripensamento dei tratttati commerciali, impopolari negli Usa tanto quanto in Europa. Sono tutte cose che la sinistra chiede e per cui si mobilita da anni. E che servirebbero a rendere il partito democratico meno il partito che somma élite urbana e minoranze e torna un po’ a parlare con i lavoratori bianchi, di cui ha perso il voto negli anni ‘60 senza riconquistarlo mai più.
Sulla poltrona più importante del mondo oggi c’è una figura egocentrica e instabile che vince grazie a bugie alla Nigel Farage e sparate razziste alla Orbán. Non è stato rassicurante. La presidenza Obama, quella del cambiamento, finisce nel peggiore dei modi e con il Congresso in mano repubblicana molte delle grandi e piccole cose fatte dal presidente sono a rischio. E questa è un’altra notizia triste.

Pubblicato il 

09.11.16
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