Italia verso le elezioni

Sesto San Giovanni, Monfalcone, Torino, Genova. Sesto con la Breda, la Falk, la Marelli era la Stalingrado d’Italia, Monfalcone con i suoi cantierini era più rossa della Jugoslavia di Tito, Torino era la classe operaia italiana per eccellenza, nord e sud uniti nella lotta e la croce su falce e martello. Genova e i camalli del porto che indossano ancora le magliette a strisce della rivolta antifascista del 1960. Le roccheforti della sinistra sono crollate alle ultime elezioni come castelli di sabbia, senza essere bombardate, il nord è smottato, il campo viene occupato dal nemico.


La sinistra nel nord non è stata sconfitta dalla destra, che non ha preso un voto in più del passato, semplicemente si è sciolta, ha abbandonato trincee e acquartieramenti storici come capitò a Caporetto cent’anni fa e anche quella volta, a provocare la resa e la fuga dei fanti fu l’ignavia e l’incapacità dei comandanti. Per non citare l’8 settembre del ’43. Così, oggi, è stato lasciato il campo libero, qui alla destra, addirittura ai razzisti di Salvini e Fontana, là ai grillini. A Sesto la partecipazione al voto nel XXI secolo è crollata dall’86% al 50%. Del resto, nell’Emilia rossa alle regionali si era recato alle urne solo il 37% dei cittadini. Stando a una sensazione condivisa, confermata dai sondaggi, il primo partito il 4 marzo sarà quello dell’astensione, in ulteriore crescita del 6-7%. E più cresce il non voto, più perde consensi la sinistra. A disertare le urne e una politica che ha dichiarato guerra alle fasce più deboli della popolazione sono proprio le figure sociali su cui la sinistra aveva costruito la sua forza, in testa gli operai, travolti prima dalla crisi poi dalla liquidazione dei diritti dentro un processo di precarizzazione di massa, mentre esplodono le diseguaglianze. La sinistra, quando non ha cavalcato direttamente questi processi li ha lasciati crescere abdicando al suo ruolo, dimenticando persino le parole d’ordine della Rivoluzione francese.


Si può fermare questa caduta libera, invertire la tendenza? È questa la sfida principale (mission impossible?) del 4 marzo. Una sfida piena di paradossi. Il primo è che l’unico partito a non avere il nome del candidato premier gridato nel simbolo elettorale è il Pd di quel tal Renzi da Rignano sull’Arno che ha fatto carte false per personalizzare la politica e trasformare il Pd nel Pdr (Partito di Renzi). Persino Liberi e Uguali (Leu) ha il faccione di Grasso nel simbolo, ma il fatto è che Renzi è riuscito con le sue politiche e la sua strafottenza a dimezzare il famoso 41% dei consensi, perdendo ogni rapporto con il paese reale, scavalcato dai leader di quasi tutti i partiti di destra, di centro e di sinistra, detestato in fabbrica e a scuola. A sinistra del Pd è un fiorire di liste, ma non è la stagione dei cento fiori. Leu si barcamena su tre gambe (Mdp, Si e Possibile), animata più dall’antirenzismo che da un progetto alternativo. Punta a ridare fiducia al popolo di sinistra, ma alla sua sinistra deve vedersela con Potere al popolo, una sintesi tra centri sociali e Rifondazione che in un paese normale sarebbero stati la coscienza critica di Leu; ma l’Italia e la sua sinistra non sono normali. Ancora più a sinistra (?) c’è un sedicente Pci più un Pcl, stalinisti e trockijsti ora divisi, ora uniti. Tutti insieme possono valere tra l’8% e il 10%.


Il M5S di Di Maio (più che di Grillo) prenderà più voti, non abbastanza per Palazzo Chigi. A seguire le destre guidate dal redivivo Berlusconi, divise su tutto ma unite nel razzismo e nelle urne. Infine, per i sondaggi, il Pd asfaltato da Renzi e sostenuto dai radicali, da un po’ di destra e un po’ di ascari. Chiaro perché il mite Mattarella ha sciolto le Camere ma non il governo? In assenza di una maggioranza ci sarà ancora Gentiloni, volto meno sfatto del Pd renziano. C’è puzza di Grosse Koalition all’amatriciana.

Pubblicato il 

24.01.18
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