L'editoriale

Stando ai rappresentanti della grande distribuzione, la revisione della legge cantonale ticinese sugli orari di apertura dei negozi in votazione popolare il prossimo 28 febbraio sarebbe praticamente una questione di vita o di morte. Sia per l’economia cantonale sia per i cittadini consumatori che in caso di bocciatura rischierebbero la fame, sia per il personale del settore perché vi sarebbero centinaia di posti di lavoro a rischio.

Non ci hanno ancora raccontato che le aperture prolungate dei commerci sono anche garanzia di maggiore sicurezza nelle nostre strade, ma non tarderanno a farlo, magari sulla spinta della paura crescente dopo i recenti attentati di Parigi e per la  minaccia terroristica in Europa.


In ogni caso sono sempre i soliti argomenti, le solite balle, i soliti tentativi di far digerire una pillola che fa bene solo a chi la vende, nel caso concreto ai colossi del commercio al dettaglio. Solo questi ultimi ne trarrebbero infatti profitto, come peraltro ammesso, nero su bianco, addirittura dal Consiglio federale nel messaggio relativo a una legge simile in discussione a livello nazionale (figlio di una mozione del senatore ticinese Filippo Lombardi), che si spinge ancora oltre (aperture fino alle 20 in settimana e le 19 il sabato) rispetto alla legge in votazione in Ticino (19 in settimana, 18.30 il sabato). E che fa parte di un unico disegno, parzialmente già realizzato attraverso la liberalizzazione del lavoro notturno e domenicale nei negozi delle stazioni, degli aeroporti e dei distributori di benzina, teso a raggiungere la deregolamentazione pressoché totale, oggi nel settore del commercio e domani in tutti gli altri, nel segno di una società che lavora e produce 24 ore su 24. Respingere al mittente la legge ticinese è dunque anche un modo per fermare questo progetto dannoso per l’intera società.


Ma soprattutto, nell’immediato, dannoso per la qualità di vita di una categoria di lavoratrici e di lavoratori già molto sotto pressione e scarsamente tutelata dal punto di vista contrattuale, che si vedrebbe ridurre ulteriormente il tempo da dedicare alla vita sociale e famigliare e si vedrebbe confrontata con ancora maggiori difficoltà a conciliare l’orario di lavoro con quelli degli asili nido, quelli dei trasporti pubblici o quelli di visita negli ospedali. Con tutte le conseguenze che ciò comporta anche per le persone che stanno loro intorno.


Tutto questo senza alcun beneficio per l’occupazione: come sempre è stato il caso, l’estensione degli orari di apertura dei negozi non contribuisce a creare un solo posto di lavoro ma solo ad aumentare ulteriormente il lavoro flessibile e spezzettato. Anzi rischia addirittura di cancellare posti, vista l’impossibilità per i piccoli commercianti (attori di primo piano dell’economia ticinese) di reggere la concorrenza con la grande distribuzione, che già oggi minaccia la loro sopravvivenza.


Nemmeno il consumatore medio infine trarrebbe particolari vantaggi, tenuto conto che gli attuali orari sono più che sufficienti per soddisfare i suoi bisogni. Casomai necessiterebbe di una politica dei prezzi più equa e di salari minimi che gli garantiscano  maggiore potere d’acquisto. Ma questa non è materia della legge in votazione il 28 febbraio. Una legge inutile, ingiustificata e dannosa, come ben riassume lo slogan della campagna del comitato referendario che prende avvio proprio oggi.

Pubblicato il 

03.12.15
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