Idea shock

Lugano non è una città timida, anzi spesso ha dimostrato di possedere una certa audacia nella gestione dei beni di famiglia, ovvero del patrimonio di ogni cittadino. Ora, si supera con una proposta da alcuni ritenuta shock, ma che il Municipio si è affrettato ad accogliere. E che diventerà realtà, se il Consiglio comunale non si opporrà al messaggio per trasformare gli Istituti sociali comunali in un ente autonomo di diritto pubblico. Il progetto è di appaltare la socialità – settore molto sensibile per la collettività – a un ente esterno e sgravare così l’autorità pubblica dall’amministrazione corrente. Per una migliore “governance”, dice il rapporto di valutazione sottoscritto da Christian Vitta, nel frattempo divenuto consigliere di Stato. Ma migliore “governance” a favore di chi?

 

Lugano vuole esternalizzare la socialità: lo dice, nero su bianco, la risoluzione municipale dello scorso 12 febbraio. Sì, l’Esecutivo ha accolto a piene braccia la proposta avanzata dalla direzione degli Istituti sociali comunali, che desidera essere “autonoma”. E allora che “Ente autonomo degli Istituti sociali” sia. Lo stesso statuto di diritto pubblico sulla falsariga dell’Ente ospedaliero cantonale (Eoc), l’Azienda elettrica ticinese (Aec), l’Azienda cantonale rifiuti (Acr) e la Banca dello Stato, di cui abbiamo già avuto prova ed esperienza di come funzionino.


Ai responsabili dei dicasteri, il Municipio – quando Lugano sembrava sull’orlo del baratro – aveva chiesto di avanzare proposte concrete nell’ottica di razionalizzare i servizi. Agli Istituti sociali comunali (Isc) – dove la famiglia Pezzoli è più che rappresentata in posizioni di comando (Paolo è il direttore di tutto l’impianto, mentre suo fratello Francesco è responsabile di Casa Primavera e di tutti i servizi socioterritoriali) – hanno avuto l’idea: vi copriamo noi il servizio. La motivazione? «I diversi attori con cui lavorano gli Istituti sociali chiedono» – è scritto senza peli sulla lingua su “Forum”, il trimestrale degli Isc – «di poter contare su partner riconosciuti e affidabili con una governance propria e specifica al settore di competenza».


Lugano, attraverso la sua amministrazione diretta, non offre sufficienti garanzie? Non ha la competenza necessaria per gestire gli Istituti sociali? Avrà perlomeno la necessaria competenza per vigilare sulla nuova struttura giuridica?
Continuiamo con la lettura del documento che illustra i vantaggi dell’operazione. Almeno, secondo il rapporto di valutazione commissionato alla società luganese di consulenza Bdo, diretta fino a qualche settimana fa da Christian Vitta. Vantaggi che sono stati illustrati ai dipendenti lo scorso 10 marzo nella sala multiuso della Residenza Meridiana dallo stesso Vitta, che di lì a poco sarebbe diventato ministro. Dell’economia e delle finanze.


Ecco i passaggi centrali dei supposti benefici secondo i promotori del progetto. Primo punto: «Maggiore slancio progettuale e maggiore adesione alle partnerships cantonali».
Secondo: «Reperimento su larga scala di fondi presso l’economia privata, attualmente di difficile realizzazione, a favore di iniziative che potrebbero essere co-finanziate attraverso la formula pubblico-privato». Precisamente quella formula pubblico-privato che, del resto, si veda la gestione del Dipartimento della sanità e della socialità, sta andando così di moda in Ticino. Lugano, in questo senso, può considerarsi anche lei à la page.
Terzo punto: «Consentirebbe alla città di aumentare la propria dotazione di posti letto, in linea con i dati della pianificazione cantonale per il periodo 2010/2020, senza caricarsi di costi di investimento, dal momento che il capitale necessario sarebbe attinto dall’ente attraverso il mercato finanziario (sul modello dell’Eoc)».


Concludendo, il rapporto della Bdo evidenzia con una certa enfasi come «la creazione di un Ente autonomo rappresenta una forma gestionale innovativa che garantisce una maggiore autonomia strategica, finanziaria e amministrativa, permette una maggiore flessibilità e indipendenza qualora si volesse in un futuro prossimo gestire le case per anziani della regione integrandole in un sistema di rete sotto un unico modello organizzativo e di gestione. Tenuto conto di questi aspetti, il modello dell’Ente autonomo di diritto pubblico è una scelta auspicabile, mentre la convenzione, seppure interessante, si distingue per una minore flessibilità e un minor grado di innovazione».


Parole d’ordine, dunque, innovazione, governance, flessibilità. Già. La nuova architettura consentirà «da una parte di lasciare alla città un ruolo di scelta delle strategie a lungo termine e l’esercizio della propria funzione di verifica degli obiettivi stessi». Di più: «La maggiore flessibilità nella gestione delle risorse umane avrà l’effetto di sgravare l’amministrazione generale del Comune, che potrà quindi meglio concentrarsi nei settori nei quali la gestione diretta del Municipio e dell’Amministrazione risulta essere fondamentale».


Voilà, questo è il disegno della riforma che tocca gli Istituti sociali, i quali sono sotto il Dicastero attività sociali di Lorenzo Quadri e sono orientati «ai bisogni della popolazione anziana non autosufficiente, dei giovani in ambito socio-educativo, alla promozione dell’accompagnamento e dell’intervento sociale» come è descritto nel sito della città. Istituti sociali che comprendono sei case medicalizzate di cura per anziani, Casa Primavera (centro educativo minorile), quattro nidi d’infanzia, l’agenzia Avs, l’Ufficio intervento sociale con sportelli Laps, l’attività di tutori, curatori e assistenti sociali. I rischi dell’esternalizzazione sono stati presi in considerazione? La socialità è un settore molto importante – chiave per determinare se una società funziona bene o male – dove in gioco ci sono le prestazioni e i servizi offerti alla parte della collettività più vulnerabile: minori in difficoltà, persone rimaste senza lavoro con a carico una famiglia, anziani che non possono più vivere al proprio domicilio. Una fetta della popolazione che, visti anche i tempi precari e incerti, deve avere la garanzia di essere tutelata secondo logiche evidentemente diverse da quelle del profitto.


Senza voler screditare il progetto e mettere in dubbio la buona fede di chi ci crede, proprio per la centralità che rivestono gli Istituti sociali comunali il dibattito politico deve essere puntuale e approfondito. I tempi però sono strettissimi: la riforma degli Isc dovrebbe essere attuata in poco più di sei mesi e al 6 maggio, mentre scriviamo prima di andare in stampa, il messaggio municipale non è ancora stato licenziato. È essenziale che i consiglieri comunali possano al più presto studiare nel dettaglio il documento per poter porre le domande al Municipio, prendendo in considerazione anche i rischi insiti nella trasformazione in un ente, prima di votare il messaggio. Passi falsi la città di Lugano non può più permetterseli perché li pagherebbero alla fine ancora i cittadini.
Esternalizzare la socialità comunale? In Ticino – e forse è una prima anche nazionale – non si è mai vista una cosa simile. Non si è per partito preso contro le «innovazioni» di cui parla la direzione degli Isc, però la questione non può essere liquidata senza discussione. Perché neppure la questione finanziaria della città è un motivo sufficientemente solido per giustificare l’esternalizzazione: da 37,5 milioni di franchi del preventivo, i conti alla fine si stanno chiudendo con una perdita d’esercizio decisamente più contenuta: si parla oggi di 2 milioni. Lugano non sta colando a picco ed è ancora ben aggrappata al timone. È pur vero che lo spavento è stato forte e destabilizzante quando il sindaco di Lugano Marco Borradori e il suo collega leghista Michele Foletti nel gennaio 2014 avevano denunciato che la città rischiava di fallire nel giro di due anni con il miliardo di debito che si ritrovava addosso e le grandi spese cui non riusciva a far fronte, compresi gli stipendi da pagare ai dipendenti eccetera eccetera.


Ora, solo un anno dopo, è arrivata la rassicurazione: no, Lugano non sarà vittima di un dissesto finanziario. Grazie ai tagli e a sopravvenienze (inaspettate?) i conti hanno assunto una nuance più sfumata di rosso: perché fra 2 e 40 milioni di deficit la differenza è abissale e sostanziale. Ma lo spavento non si cancella con un colpo di spugna e la conseguenza è la sensazione di insicurezza che si insinua. Lo sgomento per la crisi, il terrore della bancarotta spalancano la porta alla cosiddetta “schock economy”, dal titolo del saggio dalla giornalista canadese Naomi Klein. La tesi sostenuta dalla Klein nel libro, e condivisa da autorevoli economisti in tutto il mondo, è che l’applicazione di politiche liberiste (che prevedono privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica e liberalizzazioni dei salari, e possiamo aggiungerci anche certi tipi di esternalizzazioni) sia stata effettuata sempre senza il consenso popolare, approfittando di uno shock causato da un evento contingente, provocato ad hoc per questo scopo, oppure generato da incapacità politiche o da cause esterne come le calamità naturali.


Nessuno qui è così malizioso da osare immaginare, e neppure presupporre, che la situazione sia stata creata a tavolino (ci mancherebbe), ma certo l’operazione si inserisce nel clima ideale di paura.
In questo caso ci troviamo di fronte a un’esternalizzazione e non a una privatizzazione: occorre sottolinearlo. È altrettanto vero che un ente, seppur di diritto pubblico, è altra cosa da un esecutivo eletto dal popolo. L’ente è regolato da una legge che ne definisce l’autonomia, mentre lo Stato approva i conti e formalmente ne ha il controllo. Di fatto, decide chi dirige: i precedenti degli enti di diritto pubblico in Ticino – pensiamo agli scandali di Banca Stato o dell’Aet – lo dimostrano ampiamente. La politica è entrata in scena a posteriori, a investimenti sbagliati, a giochi fatti, per tappare i buchi. L’esternalizzazione permette allo Stato di liberarsi della responsabilità manageriale, mentre il controllo dovrebbe essere sempre vigile: i fatti ci dicono che non sempre è così.


Le parole flessibilità e partnership, non lo nascondiamo, invece ci spaventano assai. La prima sappiamo quanto sia costata a molti lavoratori e la seconda è una definizione equivoca che allude a una parità non reale, in quanto il privato è spesso più avvantaggiato. E negoziare partnership sui diritti sociali ci sembra paradossale. Quale sarà l’aspetto predominante? Quello privato o pubblico? Problemi di natura sociale saranno regolati secondo la logica della razionalizzazione per ottenere maggiore profitto o considerando i bisogni reali dei cittadini? Le assunzioni in futuro come saranno regolate? Da un contratto collettivo di lavoro o l’ente potrà assumere alle sue personali condizioni, andando anche a reperire dipendenti frontalieri a minor costo? L’entrata nelle case anziane sarà sempre garantita in base alla liste d’attesa o seguendo altri criteri fra cui quello del reddito di chi inoltra domanda? Infine, la formula dell’ente autonomo non rischia di aprire le porte al clientelismo? In gioco, oltre ai diritti sociali, ci sono pure tanti soldi. Magari, chi lo sa, potrebbe essere un’ottima soluzione, ma che lo decida un dibattito politico serio.

Pubblicato il 

06.05.15
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