Accordo quadro Svizzera-Ue

Che senso ha la svolta ideologica dei due consiglieri federali del Plr, Ignazio Cassis e Johann Schneider-Ammann, nel negoziato con l’Unione europea per un accordo quadro istituzionale con la stessa Ue [vedi articolo qui sotto]? Quale valore ha la libera circolazione delle persone (Lcp) se con essa i diritti dei lavoratori, invece di essere migliorati e difesi, vengono livellati verso il basso? Ne abbiamo parlato con l’ex co-presidente del sindacato Unia e dell’Unione sindacale svizzera (Uss), Vasco Pedrina, autore di uno studio su libera circolazione delle persone e misure d’accompagnamento.

 

«La libera circolazione delle persone si basa, anche nel caso della Svizzera, sul principio dell’uguaglianza dei diritti tra i lavoratori svizzeri e i lavoratori che provengono dall’Ue. Vuol dire che tutti ricevono un salario svizzero e condizioni di lavoro svizzere. Naturalmente la Lcp ha anche una dimensione di apertura dei mercati del lavoro europei. Questa apertura è molto positiva per le aziende; ha però un aspetto problematico per i lavoratori, in particolare a causa delle grosse differenze di salari e condizioni di vita tra i vari paesi. È vero che la Svizzera ha salari elevati, però ha anche costi della vita elevati. Ed è per questo che i sindacati, quando si è posta la questione dell’integrazione della Svizzera nel mercato unico europeo, hanno dovuto mettere la condizione che ci fossero delle misure accompagnatorie contro il dumping salariale. Queste non siamo riusciti ad ottenerle quando era in vigore il contingentamento dei lavoratori stranieri, perché, ci dicevano, chiudiamo le frontiere e non ci sono problemi. In realtà i problemi c’erano. Grazie alla votazione popolare del 2000 sui principali accordi bilaterali, che comprendevano anche la Lcp, si è riusciti a fare un passo avanti nella protezione dei lavoratori».

 

Quindi, la Lcp, pur rappresentando un vantaggio maggiore per l’economia, ha rafforzato i diritti dei lavoratori.

«La Lcp è stata un grande passo avanti per gli immigrati in Svizzera, perché con essa, per esempio, è caduto lo statuto inumano dello stagionale. Però si è rivelata anche un vantaggio per i lavoratori svizzeri, perché grazie ad essa si sono ottenute una protezione dei salari e misure d’accompagnamento, che hanno permesso di rafforzare sensibilmente, per esempio: il sistema dei contratti collettivi (a cui sono sottoposte molte più persone); il sistema dei salari minimi, che prima quasi non esisteva; il sistema dei controlli, che sono aumentati fortemente; eccetera».

 

Da un punto di vista politico, perché Schneider-Ammann e Cassis hanno tentato di indebolire le misure d’accompagnamento? Cosa c’è dietro?

«Quello che ci può essere dietro è che i negoziatori del Consiglio federale, contrariamente a ciò che viene detto pubblicamente, avevano già cominciato a negoziare su queste questioni con l’Unione Europea, arrivando alla conclusione che l’Ue non avrebbe accettato la posizione del Governo svizzero, sostenuta dai sindacati, di considerare una invalicabile “linea rossa” le misure d’accompagnamento e la protezione dei salari. E siccome ritengono essenziale arrivare ad un accordo quadro istituzionale per stabilizzare i rapporti bilaterali e per sviluppare ulteriormente i rapporti bilaterali, hanno ritenuto questo obiettivo più importante della protezione dei lavoratori. Quindi si sono dichiarati disponibili a negoziare un accordo quadro istituzionale che preveda un indebolimento delle misure d’accompagnamento, come richiesto dalla Ue».

 

Si è tentato insomma di approfittare di queste pressioni dell’Ue?

«È chiaro che c’è un interesse, anche dell’economia. Le associazioni padronali svizzere sostengono i due consiglieri federali, perché naturalmente, nella loro logica, la libertà del mercato è libertà d’azione per i “boss” delle aziende, cosa più importante della protezione dei lavoratori e dei loro salari. Quindi, c’è una logica neoliberale in questa politica».

 

Anche l’intenzione di spaccare il fronte sindacale?

«C’è anche il tentativo di spaccare il fronte sindacale, anzitutto verso i sindacati europei: ma questo non gli riesce, perché la Confederazione europea dei sindacati si è schierata in difesa della nostra posizione ed ha fatto appello alla Commissione europea a mostrarsi più ragionevole con la Svizzera. E cercano anche di creare delle divisioni all’interno delle forze sindacali e del mondo del lavoro: finora le uniche a non condividere le posizioni dell’Uss e di Travail.Suisse sono le direzioni di piccole organizzazioni come la Società svizzera degli impiegati o l’Associazione degli impiegati della metallurgia, che però sul piano politico contano poco e non fanno l’interesse dei loro iscritti».

 

Ora, dopo la presa di posizione dei sindacati, è possibile che si tenti di rimandare l’accordo quadro con l’Ue a dopo le elezioni federali dell’anno prossimo, per evitare che l’Udc ne faccia tema di campagna elettorale?

«Per i sindacati – che non sono un partito e non fanno calcoli elettorali – ogni passo di ulteriore avvicinamento all’Ue non può avvenire se il costo è l’indebolimento della protezione dei salari e delle condizioni di lavoro in Svizzera. Sono convinto, in base all’esperienza storica, che anche la popolazione svizzera direbbe di no: uno dei principali motivi per cui nel 1992 venne respinto lo Spazio economico europeo fu proprio che non era stata prevista nessuna misura protettiva. Al contrario, nelle votazioni successive su proposte di avvicinamento all’Ue, ogni volta il popolo ha detto sì, perché ogni volta c’è stato un miglioramento delle misure d’accompagnamento».

 

Si è parlato molto della regola “degli 8 giorni”. Perché è così importante?

«La regola degli 8 giorni è importante perché riguarda l’ambito del lavoro distaccato, dove il rischio di dumping salariale è fra i più elevati. Gli 8 giorni di preavviso ci permettono di organizzare i controlli; se si riducono i giorni, si riduce anche tale possibilità. Puntare apertamente contro questa regola doveva servire a far apparire l’opposizione dei sindacati come “kleinlich”, cavillosa. In realtà l’Ue non solo chiede di eliminare gli 8 giorni, ma anche la cauzione; inoltre rimette in causa una serie di misure legate al nostro sistema di esecuzione dei contratti collettivi, trova che facciamo troppi controlli e chiede che ne riduciamo la media (dal 36% dei distaccati) al 3 per cento. E quel che più conta: l’UE vuole condizionare in futuro le nostre misure di protezione dei salari, riservandosi il diritto di peggiorarle e di impedirci di rafforzarle».

 

Che cosa è cambiato nell’Ue?

«Nel corso di questi anni l’Unione europea ha cambiato la sua filosofia iniziale, relativa al principio di non discriminazione. Tale principio significava che i cittadini comunitari non possono essere discriminati all’interno del mercato comune. E siccome la Svizzera, con gli accordi bilaterali fa parte del mercato comune, anche la Svizzera non può discriminare i lavoratori. Le nostre misure d’accompagnamento si basano tutte su questo principio; e noi siamo d’accordo di rispettarlo. Quello che ha fatto l’Ue, a seguito di sentenze della Corte europea di giustizia del 2007-2008, è che ha cambiato la regola: adesso sono discriminatorie e non proporzionali tutte le misure che, per esempio, un’azienda polacca incontra in Svizzera e che non corrispondono al sistema vigente in Polonia. Vuol dire che se in Polonia non c’è la regola degli 8 giorni, non la si può avere in Svizzera. È un livellamento verso il basso a favore del capitale. Un criterio inaccettabile».

 

Questo cambiamento di filosofia dell’Ue ha influito negativamente anche sulla politica sociale in Europa?

«Effettivamente c’è stato un peggioramento, che ha trovato riscontro anche nella giurisprudenza della Corte europea di giustizia, la quale, fino alla metà del primo decennio dopo il 2000, veniva chiamata la “coscienza sociale dell’Europa”. Questo si manifestava in sentenze che, tendenzialmente, erano favorevoli ai più deboli e ai lavoratori. Ciò che è cambiato è che, sul piano ideologico, c’è stato l’avanzamento del neoliberalismo; ma sul piano pratico è successo che l’allargamento all’Est dell’Ue ha avuto come conseguenza
che, per esempio nella Corte europea di giustizia, sono arrivati dieci paesi ai quali, in una fase di neoliberalismo estremo, interessava solo che aziende polacche, rumene e bulgare potessero venire a lavorare in Svizzera con salari polacchi, rumeni e bulgari. E questo ha avuto un effetto su tutte le sentenze. L’altro problema grave è stata la crisi mondiale del 2007-2008, che ha portato a politiche di austerità estreme. Il caso più brutale è stato quello della Grecia, però a soffrire sono stati tutti i paesi del Sud. E la conseguenza di tutto questo è stata la crescita della destra populista in tutta Europa: questo è il prezzo che ha pagato l’Unione europea per una politica antisociale. Con l’adozione l’anno scorso di uno zoccolo dei diritti sociali e quest’anno di una revisione della direttiva sul distaccamento di lavoratori, il pendolo nell’UE si sta però muovendo di nuovo in una direzione più positiva. Per cui si può di nuovo sperare per il futuro».

 

Per concludere: dopo questo no dei sindacati, qual è la prospettiva nei rapporti bilaterali Svizzera-Ue? Quale soluzione si profila?

«La prospettiva è, per come è stato condotto questo dossier, una situazione d’impasse, perché porterebbe ad un accordo con l’Unione europea che i sindacati, ed anche il popolo, non potrebbero accettare. Quindi, riteniamo che sia meglio rimandare il tutto a tempi migliori. Ma nello stesso tempo bisogna segnalare all’Europa che continuiamo ad essere interessati al mantenimento ed allo sviluppo di rapporti bilaterali con l’Ue. Per evitare o cercare di attenuare le paventate misure di ritorsione dell’Ue nel caso non si riesca a ottenere l’accordo atteso, bisognerà dare dei segnali positivi nei campi concreti dove si può farlo. Per esempio, adesso si sta discutendo di un secondo contributo alla coesione europea (il famoso miliardo per i paesi del centro-est europeo): sarebbe un’occasione per dimostrarsi costruttivi verso l’Ue. Questa dovrebbe poi, almeno con il tempo, poter capire che il sistema politico non permette di fare passare in voto popolare accordi che vanno a scapito di chi lavora, e che perciò bisogna convincere il popolo. Questo devono capirlo anche loro».

 

 

La posta in gioco in una pubblicazione di Unia

“Dalla politica dei contingenti alla libera circolazione delle persone. La politica migratoria dei sindacati nella lotta contro le discriminazioni e il dumping salariale”: è il titolo di una ricerca che spiega, in una prospettiva storica, il passaggio dalla politica dei contingenti alla libera circolazione delle persone, e quindi il perché la Svizzera si trovi oggi a un bivio e quale sia la posta in gioco per le lavoratrici e i lavoratori. Commissionata dal sindacato Unia e scritta dall’ex co-presidente di Unia Vasco Pedrina, coadiuvato dallo storico Stefan Keller, la pubblicazione reca argomentazioni forti contro un modello xenofobo di isolamento e immigrazione, e contro le ideologie di mercato neoliberiste che mettono in discussione la protezione delle condizioni lavorative e salariali. La Svizzera – è la conclusione – non deve cedere la competenza di fissare le misure d’accompagnamento alle autorità dell’Ue, che spesso non tengono in alcun conto i diritti dei lavoratori.
L’opuscolo è ottenibile, in francese o tedesco, presso il Segretariato centrale di Unia (praesidium@ unia.ch).

 

Pubblicato il 

05.09.18
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