Secondo la magistratura di Taranto, nel corso della gestione privata dell’Ilva svenduta dallo Stato a Emilio Riva, il nuovo padrone della siderurgia italiana ha fatto utili a palate. Almeno 8,2 miliardi di euro Riva li ha intascati grazie al mancato rispetto di decreti, sentenze e ordinanze che imponevano l’ambientalizzazione degli impianti per ridurre l’inquinamento provocato dal più grande stabilimento siderurgico d’Europa.


Il principio che ha mosso la genia dei Riva è semplice: aumentare la produzione e gli utili, costi quel che costi a operai e cittadini tarantini; oliare politica, istituzioni, informazione, Chiesa, sindacati, periti, isolando l’odiata magistratura. È un principio a prova di diossina: «Qualche tumore in cambio del lavoro è una minchiata», diceva il figlio di Emilio, Fabio Riva, latitante sul Tamigi. L’Ilva di Taranto è la fabbrica dei primati: occupa un’area maggiore della stessa città, ha una produzione annua di acciaio fino a 10,5 milioni di tonnellate e sputa fino al 92% di diossina industriale che avvelena l’Italia.


Riva ha capito per tempo che la festa prima o poi sarebbe finita e ha spostato il plusvalore accumulato sulla pelle – la salute – dei lavoratori e dei tarantini fuori dall’Ilva, trasferendolo in altre società dell’universo Riva e mettendolo sotto protezione in un sistema di scatole cinesi nei paradisi fiscali di quattro continenti. Ora che il pentolone dell’“Ilva Connection” è stato scoperchiato dalla magistratura, il problema sarebbe di trovare il modo di riprendersi e restituire alla comunità il maltolto, il bottino di Emilio Riva & figli. Certo, ci vorrebbe la volontà politica, di una politica finora subalterna e prezzolata dai Riva e pronta a guardare di traverso la magistratura che ha bloccato alcuni conti del padrone delle ferriere. Colpa, ci fanno sapere, delle toghe “anticapitaliste” se oggi 1.400 operai sono a casa, nelle fabbriche Riva non Ilva. Mentre scriviamo è in atto un balletto nel governo, che invece di rispondere immediatamente ai ricatti di Riva con il commissariamento di tutto il suo impero, cincischia, aumentando i rischi di perdite di commesse e clienti lasciati senza acciaio. Questo governo ha seguito le tracce di chi l’ha preceduto, confermando presidente dell’Ilva commissariata lo stesso Ferrante nominato dai proprietari (il lupo a guardia del gregge), e come commissario Enrico Bondi, l’uomo che ha passato la Lucchini ai russi e la Montedison ai francesi.


L’economia italiana non può farcela senza l’acciaio, una delle poche voci attive della nostra dissestata bilancia dei pagamenti, ma è impensabile continuare a produrre acciaio come si fa a Taranto. Gli esempi di produzione socialmente e ambientalmente compatibili non mancano: a Linz, a Duisenberg, in India. Certo, servono investimenti, tecnologie, regole, controlli. Servono soldi, ma quelli basterebbe prenderli dove stanno: sotto i materassi di Riva. Subito l’estensione del commissariamento a tutto l’universo Riva, poi la nazionalizzazione che è l’unica strada per risanare produzione e ambiente. Per risanare, oltre all’ambiente tarantino, anche le coscienze, ci vorrà più tempo. Bisogna ricostruire un’autonomia di classe, indebolita da decenni di Partecipazioni statali e frantumata dagli anni di Riva. È la scommessa, difficile, avviata dalla Fiom in solitudine.


Di strada da fare ce n’è molta, ma se non ci si muove subito Taranto e l’Italia perderanno, dopo la salute, anche il lavoro.

 

Pubblicato il 

25.09.13

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