Negozi

Ordunque, per farla breve, l’ideona del ticinese Filippo Lombardi (Ppd) a Berna è piaciuta. Assai. E poco importa se tutti i Cantoni della Svizzera (unica eccezione il Ticino) hanno fatto un salto sulla sedia ed espresso un chiaro no: la proposta non sta in piedi. Ciò nonostante nel cuore dei politici che regnano nella capitale la mozione del senatore, dal titolo «Franco forte. Parziale armonizzazione degli orari d’apertura dei negozi», ha fatto breccia: il Consiglio federale, qualche giorno fa, ha licenziato e trasmesso al parlamento il messaggio per l’adozione di una Legge federale sugli orari di apertura dei negozi.

 

Obiettivo dichiarato è lanciare una sfida al turismo degli acquisti all’estero. Un sillogismo semplice, semplice: se i commerci saranno aperti più a lungo, la gente spenderà soldi a palate. L’applicazione della nuova impostazione organizzativa? Un dettaglio, lavoratori, in un qualche modo vi arrangerete, che chi ha voglia di rimboccarsi le maniche un modo per sudare lo trova sempre.


Chi sostiene la riforma – partiti borghesi e grandi catene commerciali – è convinto che farà rinvenire l’economia nazionale. «Presto i sali» si gridava quando una dama dell’Ottocento sveniva (o faceva finta di perdere i sensi). Ecco, i sali di Lombardi per far tornare i sensi e quadrare i conti che non tornano più: estendere gli orari di apertura dei negozi. Per il consigliere agli Stati, che chiama la liberalizzazione “armonizzazione”, la misura permetterà di «ridurre le distorsioni della concorrenza dovute ai diversi orari di apertura dei negozi svizzeri e di quelli oltreconfine».

 

Quindi, su le saracinesche dalle sei del mattino alle 20 (domenica e festivi esclusi) e sabato apertura prolungata fino alle 19. Se c’è chi si frega già le mani (i grandi distributori), la ricetta alla mago Merlino preoccupa non solo i sindacati e la sinistra, ma gli stessi Cantoni. C’è poca fiducia nel fatto che il disegno di legge possa essere risolutivo dal punto di vista economico, mentre appaiono fin d’ora evidenti le conseguenze sociali negative della misura.


La domanda è banale nella sua ovvietà: il turismo degli acquisti è motivato da questioni di orario o di potere d’acquisto? Ma soprattutto quali sarebbero le ricadute sociali per i lavoratori e le loro famiglie, se il messaggio dovesse essere approvato dal Legislativo?


Rigiriamo la questione all’economista Christian Marazzi. Il professore è chiaro: «È un’operazione di cosmesi. Dobbiamo partire dal nodo centrale: come aumentare il consumo interno? Mantenendo bassi i salari è difficile immaginare un’impennata dei consumi solo perché alla sera si può fare la spesa fino alle 20. Da almeno dieci anni gli stipendi in Svizzera non crescono, al contrario delle spese fisse (cassa malati, affitti eccetera). Il problema è questo, non si può immaginare di aumentare la crescita interna dei consumi, eludendo il fattore centrale che è quello salariale».


Insomma, detto terre à terre, non si può spendere il denaro, se non lo si ha: neppure se il negozio sotto casa ci aspetta fino a quando abbiamo finito di fare i nostri comodi. Se a fine mese non mi resta un franco in tasca, potete tenere aperto anche a Natale che non caverete un ragno dal buco. A meno che uno non si indebiti fino al collo comprando a rate. Ma che meraviglia!


Di certo una deregulation aggressiva non appare quale antidoto alla crisi dei consumi. La liberalizzazione favorirà le grandi catene commerciali, creando un clima da giungla, dove l’animale più grosso mangia il più piccolo (i piccoli negozi che non potranno permettersi di tenere aperto in maniera così dilatata). A dire il vero la mozione sembra essere solo un regalo al liberismo selvaggio, aumentando la distanza tra le fasce sociali.
Si vogliono combattere i pendolari della spesa, offrendo loro condizioni più appetibili (l’estensione degli orari, appunto) per comprare nella madre patria che li sfama? «La misura in questo senso sarà poco incisiva ed è facile ipotizzare che il turismo degli acquisti non subirà uno scossone. Io abito a Vacallo, vicino alla frontiera, e anche se non sto col cannocchiale a osservare i passaggi alla dogana, mi è evidente che questi flussi sono determinati dal potere d’acquisto del franco e da un mercato alimentare che, per la scelta di alcune derrate, è attrattivo. Questo vale anche in senso inverso: ci sono italiani che comprano in Svizzera determinati prodotti» continua Marazzi.


Per l’economista il progetto di legge non servirà ad aumentare il consumo interno e a tutelare i 370.000 collaboratori impiegati nel commercio al dettaglio, né a garantire quegli oltre 15.000 posti di lavoro e di formazione in pericolo come invece si prefigge il senatore Filippo Lombardi. «Sotto questo profilo la misura sarà poco incisiva, ma è invece già sin d’ora prevedibile un aumento della flessibilizzazione con conseguente danno supplementare all’economia. Gli effetti negativi si faranno sentire. In questo senso appare evidente lo squilibrio fra gli obiettivi che la proposta insegue e le conseguenze che una sua attuazione comporterebbe. I piccoli commerci non saranno in grado di sopportare e godere della misura, ma ne subiranno duramente il contraccolpo a favore delle grandi catene che conquisteranno ancora più mercato. I lavoratori invece si ritroveranno a operare in un mercato che chiederà loro di essere più flessibili e precari, senza ricevere nulla in cambio, se non sobbarcarsi grandi difficoltà nell’organizzazione della vita familiare. Penso in particolare modo alle donne che dovranno fare i salti mortali per conciliare lavoro e casa. Non ci vedo nulla di positivo in tutto questo» aggiunge l’economista.


E sì che, nel testo depositato il 15 giugno 2012, Lombardi parla esplicitamente di una parziale armonizzazione che «dev’essere sostenibile a livello sociale, rispettare interamente le disposizioni della legge sul lavoro in materia di protezione e continuare a lasciare un margine di manovra ai Cantoni».


Per essere sostenibile a livello sociale, i salari non possono essere ridotti all’osso e per Marazzi le condizioni di lavoro dovrebbero essere tutelate proprio da chi ne avrebbe la possibilità e il margine di manovra: le grandi catene. Ma non sembra essere la loro priorità.


Tirando le somme, i lavoratori dovranno “turnare” secondo le esigenze (e i capricci dei datori di lavoro, come emerso nella recente cronaca, vedi il caso Gucci) in un clima di instabilità. I piccoli commerci faranno fatica a tenere il passo con i giganti del dettaglio ed è presumibile che per risparmiare i turisti dell’acquisto continueranno a varcare la frontiera se la paga permane quella di dieci anni fa.


Un esempio del fallimento del provvedimento di marca liberista lo abbiamo visto in Italia con la liberalizzazione di Monti degli orari dei negozi: l’operazione non ha centrato l’obiettivo di rilanciare i consumi e in compenso ha sfavorito i piccoli esercizi, già duramente colpiti dalla crisi. Marazzi conclude constatando che «si continua a curare il male con la stessa ricetta che ha causato la malattia».


Basta alle derive turbo-liberiste che propongono ricette non solo nemiche dell’uomo ma anche fallimentari. La via proposta per uscire dalla crisi non solo è antiumana, ma è di alquanto dubbia efficacia anche secondo un’ottica utilitaristica e strettamente economica. Se l’obiettivo invece è di favorire Migros, Coop, Manor, Media Markt e compagnia bella, riempiendo le tasche dei super manager, non parliamo più: in questo caso sì, la ricetta è quella vincente...

Pubblicato il 

04.12.14
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