Professoressa Di Nallo, il forte sviluppo dei centri commerciali, in linea generale, costituisce un bene o un male per la società?
Non è né un bene né un male. Il problema è se risponde al trend delle aspettative dei consumatori e del mercato. Io dico di no. Lo sviluppo che noi registriamo in Europa è infatti la coda di un fenomeno che ha già avuto la sua conclusione negli Stati Uniti, la patria dei centri commerciali. Il sociologo americano George Ritzer, che un tempo li definiva cattedrali nel deserto, ora li chiama dinosauri in via di estinzione: quasi tutte le 1.500 strutture presenti (i cosiddetti "shopping mall") registrano infatti un calo di affluenza e molte sono costrette a chiudere. E non solo in America ma anche a Dubai. Noi europei, che non guardiamo al futuro ma a quello che hanno fatto gli altri, rischiamo così di impantanarci commettendo i loro stessi errori.
Perché i consumatori frequentano i centri commerciali? Per scelta o perché non hanno alternative?
Il centro commerciale è una realtà ormai consolidata della nostra società e il consumatore ha una serie di ragioni per recarvisi: ragioni logistiche poiché ha la possibilità di andarci in automobile, di tempo perché si può approvvigionare di tutto in un colpo solo ed economiche perché spesso si possono fare dei risparmi grazie alle molte offerte disponibili che si trovano a fatica in altri posti. Dunque, il centro commerciale è una realtà consolidata ma dovrà differenziarsi da quella americana per sopravvivere.
Qual è il più grande limite di questi "dinosauri in via di estinzione"?
Innanzitutto la loro dimensione. Il principio "bigger is better" (grande è meglio, ndr) non funziona più, ha stufato la gente, la quale ha ancora un senso delle proporzioni: vive in piccole case, in piccole stanze e non ama questi posti, con grandi spazi densi di merce e caotici. E anche l'offerta di prezzi bassi a tutti costi non è più attrattiva per il consumatore, che ha imparato a discernere, a cercare la qualità che al contempo non sia esosa. Il consumatore è insomma diventato assai consapevole ma molti commercianti non lo hanno ancora capito.
Come mai è cambiato il comportamento dei consumatori e questi cosa si aspettano da un centro commerciale?
Il consumatore post-moderno non è più quello avido, individualista, escludente, che voleva di tutto e di più e che si poteva imbrogliare abbastanza facilmente. Quella del consumo è diventata (prendendo il posto del lavoro) la maggiore e più vasta area esperienziale nella nostra società. Dunque, tutti consumano e acquistano ma "imponendo" una serie valori. Un'istanza che molte aziende hanno recepito, per esempio introducendo il concetto di "commercio equo e solidale" o con una loro partecipazione ad attività benefiche. Ma queste sono solo risposte fievoli a una forte domanda da parte della gente, a cui ormai non interessa più la pista di sci dentro il centro commerciale, dove al massimo ci va un paio di volte e poi non ci va più. Bisogna del resto anche tener conto che viviamo in un'epoca in cui ci sono meno soldi a disposizione rispetto ad un tempo. Oggi c'è la crisi economica e in ogni caso anche in futuro la situazione spendereccia degli anni Ottanta non la rivedremo più, anche in virtù di una maggiore distribuzione della ricchezza nell'intero globo. In conclusione dunque, avendo meno soldi a disposizione e più consapevolezza, il consumatore va al centro commerciale, ma richiede (più o meno consciamente) ciò che cerca ovunque, ossia: socialità, rapporto col territorio e con l'ambiente. Per resistere, gli shopping center dovranno per forza di cose ancorarsi a questi nuovi valori fino a diventare nuovi centri di civiltà, dove vi siano possibilità di aggregazione e di agganci con il territorio.
Non è sorprendente che meno del quaranta per cento di chi si reca in un centro commerciale esce con un acquisto?
È un dato che mi dà ragione. Un tempo la gente andava a fare delle passeggiate per vedere se erano arrivati i cardellini, per guardarsi semplicemente attorno, per cercare tutto e niente. Oggi invece si va al centro commerciale per vedere le novità, per assaporare qualcosa che ti mette in contiguità con gli altri. Chi di dovere dovrebbe capirlo e rendere possibile anche in un centro commerciale forme di socialità, un contatto tra le persone, un rapporto col territorio che un tempo si sviluppava in piazza.
Non è un po' artificiale cercare di ricreare in questi luoghi lo spirito della piazza?
Non si tratta di questo, ma di creare degli spazi non artificiali in cui la gente possa riproporre la propria socialità. Mi viene in mente per esempio la creazione di una grande cucina dove la gente possa cucinare o seguire dei corsi e così rendersi protagonista. Ma se ne possono pensare molte altre di iniziative che vadano in questa direzione. Insomma, mentre un tempo la gente andava al centro commerciale per comprare, oggi ci va per vivere.
Già oggi i centri commerciali vengono sempre più spesso "venduti" come luoghi d'incontro e di socializzazione, ma l'impressione è che siai una socialità fittizia poco autentica...
Di autentico c'è tutto e niente: cinque anni fa nessuno poteva credere all'autenticità di un rapporto con una persona incontrata attraverso uno strumento poco autentico come internet, mentre oggi tutti sanno che può capitare. Allo stesso modo, anche un centro polivalente dà la possibilità di creare dei rapporti, alcuni veri e altri finti. Del resto anche se all'inizio i legami appaiono forzati, si possono sempre approfondire, come un tempo erano i matrimoni combinati che alla fine sfociavano in amore vero.
L'evoluzione da lei prospettata è in sintonia con gli interessi economici di chi i centri commerciali li realizza e li gestisce?
Come la gente che vuole continuare ad ammazzare il pulcino non avrà mai il galletto, l'imprenditore che bada solo a quanto gli rende nell'immediato ogni centimetro quadrato oggi è destinato a vedersi morire in mano il centro commerciale.
Il clienti di un centro commerciale, oltre ad essere monitorati attraverso le varie forme di tessere fedeltà, sono costantemente spiati dalle telecamere in ogni loro movimento e in più, attraverso il self-service spinto all'eccesso, si trasformano di fatto in lavoratori non retribuiti. Non le pare eccessivo questo sfruttamento?
Che ci sia da parte di chi vende il desiderio di sfruttare chi compra è una cosa vecchia quanto il mondo. L'unica differenza è che un tempo era lasciata alla capacità e alla spontaneità individuale, mentre oggi è una filosofia, una disciplina. I commercianti devono però fare attenzione a non sottovalutare l'intelligenza del consumatore e anche per questo l'imprenditore accorto crea degli "spazi di ammorbidimento" (destinati per esempio alla socializzazione) indipendentemente dalla loro resa in termini economici.

Pubblicato il 

09.07.10

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