A fine luglio è apparsa sulla stampa una campagna informativa che evidenziava un fenomeno nato negli Stati Uniti tra le giovani donne. Sui diversi social media decine di migliaia di giovani manifestavano apertamente la loro aperta e ferma opposizione al femminismo, ritenendolo un fenomeno completamente superato e in qualche modo lesivo dell’immagine della donna stessa. «Dico no al femminismo perché non mi sento oppressa»; «Non mi piace fare la vittima»; «Siamo già uguali»; «Non sento il bisogno di affermarmi con la prepotenza». Queste alcune tra le frasi più significative che sventolavano queste giovani donne sorridenti di fronte all’obiettivo.


Credo sia importante capire perché tutto ciò capita adesso, in un momento in cui, di fronte alla pesantissima crisi economica in atto, l’esperienza quotidiana delle persone, ma anche i freddi numeri della statistica, sono lì a dimostrare come siano proprio le donne a pagare maggiormente le conseguenze della crisi economica e dell’assurdo modello di sviluppo di cui continuiamo a essere schiavi.


Ma allora perché queste giovani donne non vogliono o non sanno leggere la realtà? Perché queste giovani donne sentono il bisogno di differenziarsi dalle altre, sentono la necessità di manifestare se stesse come individui separati, privi di genere e di specificità? Perché tanto fastidio e insofferenza di fronte a un movimento che proponeva solidarietà, sorellanza, vicinanza, condivisione?
Sarebbe davvero lungo e articolato (ma anche molto intrigante per cui magari mi permetterò di farlo in futuro) tentare di cercare le motivazioni di un simile fenomeno. Quello che però mi pare importante sottolineare come primo aspetto è il fatto che in questi anni come madri, come donne adulte nelle tante funzioni diverse che abbiamo assunto, nel privato come nel pubblico, non abbiamo saputo trasmettere alle nostre figlie la dimensione della speranza, del sogno, dell’utopia che racchiudeva il progetto femminista.


Temo perché abbiamo ridotto quel sogno a una semplice rivendicazione di diritti, perdendo cioè quella capacità di far capire (e forse distinguere noi stesse) tra quella che era una importantissima e giusta battaglia per i diritti civili delle donne (ma comunque solo una battaglia per i diritti di cittadinanza) da quella che era invece una guerra, o meglio, una rivoluzione politica che voleva portare la specificità di genere all’interno della società come fattore importante e motore di un cambiamento radicale della società stessa.


Abbiamo dimenticato e perso per strada quella dimensione ideale, rivoluzionaria, che ci permetteva di batterci e sperare in un cambiamento fondamentale nella società, per restare paladine dei diritti delle donne, come cittadine, in una società costruita, voluta, comandata, imposta dagli uomini che non abbiamo voluto e saputo combattere. E non è un caso se le poche donne che hanno ottenuto un sufficiente spazio per tentare di cambiare qualcosa, salvo rare e lodevolissime eccezioni si siano semplicemente adeguate ai modi degli uomini per riuscire a competere con loro e batterli sul loro stesso piano, dimenticando o ignorando volutamente il fatto che una simile operazione era perfettamente inutile per aprire la strada all’affermazione dei diritti e delle specificità della donna nella società.
Chissà che cosa ne pensano le mie, le nostre ragazze?!

Pubblicato il 

27.08.14

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