I casi Yasin e Arlind

Yasin e Arlind, due ragazzi della cosiddetta porta accanto. Abitano vicino alle nostre case, frequentano i nostri stessi luoghi, parlano come noi. Il secondo a soli 17 anni e abita ancora con la madre. La loro “particolarità”? Sono  stranieri con statuti particolare e la legge ha deciso che, anche se sono integrati da anni in Ticino, non sussistono più le  condizioni per la loro permanenza. Devono fare subito la valigia. Da sinistra a destra parte della popolazione è insorta, chiedendo al consiglio di Stato di intervenire. È partito il conto alla rovescia: pollice su o pollice giù?
 
Che indignazione, che vergogna! Suvvia, “sono due di noi”, Yasin e Arlind. Sono dei ragazzi, dei “bravi ragazzi”, il curdo di 23 anni e il kosovaro di 17 anni, con una vita regolare, irreprensibile e soprattutto radicata in Ticino. Li vogliamo davvero rispedire come pacchi a un mittente di cui non si ha alcuna certezza? Sono giovani  integrati e forse sono stranieri non qui ma in un altro dove.


Ma, diamine, non c’è più un po’ di umanità in questo paese? E allora scendiamo in piazza a gridarlo! Sottoscriviamo petizioni. Lanciamo appelli in Facebook- Che le autorità ci ripensino e non diano seguito a una decisione stridente con il buonsenso: diciamolo pure,  le storie strappalacrime fanno emergere il senso deamicisiano nascosto dentro di noi. Perché Yasin e Arlind sono esseri umani, mica oggetti, devono poter restare in Ticino dove  hanno riannodato i fili di esistenze confrontate, nonostante la loro giovane età, con prove pesanti.


Uno sdegno, per quella che è di fatto un’espulsione, che ha fatto stringere il cuore anche a un Orlando Del Don, politico attivo per l’Udc, non proprio il partito simbolo dell’apertura verso rifugiati, profughi e stranieri in generale. Anzi, parliamo di quella Unione democratica di centro che porta con orgoglio nel suo Dna una chiusura e un rigore radicale in materia d’asilo politico e di immigrazione, annoverando fra i suoi “successi” una riuscita campagna nazionalista. Non si sa se per opportunismo politico, calcolo elettorale, ideologia o che altro ancora: Del Don, democentrista doc, è psichiatra e sicuramente conosce il meccanismo meglio di noi.


Comunque sia il modo di trattare i casi umani come numeri, grazie anche alla propaganda di chi alimenta paure verso gli stranieri, si sta imponendo nel nostro paese: negli ultimi trent’anni la Legge federale sull’asilo è stata sottoposta a una decina di revisioni, in media una ogni tre anni. Giro dopo giro di vite, le norme per il diritto di statuto di rifugiato sono state viepiù inasprite: qualcuno si è spinto più in là definendole disumane, ma resta il fatto che sono state accettate con il beneplacito dei cittadini attraverso il voto democratico. Poi c’è chi, dopo avere depositato con orgoglio la scheda nell’urna elettorale e aver festeggiato per la vittoria, si indigna davanti alla persona in carne e ossa di turno. Una contraddizione? È forse allora utile ricordare che ci sono centinaia di Yasin e Arlind, di vicende drammatiche che si risolvono regolarmente con un’espulsione o una revoca del permesso di soggiorno.


«Quando una persona vittima delle restrizioni di queste leggi è conosciuta personalmente – in quanto amico, collega di lavoro, compagno di studi, vicino di casa – ci si oppone e si invoca giustizia. Se invece è un numero su un dossier, tutto tace. Questo sembra voler dire che coloro vengono difesi sono migliori, quando invece non è vero. Qui si parla di famiglie divise, di bambini costretti a crescere senza un padre o una madre, di persone singole forzate a tornare in terre che spesso sono loro totalmente sconosciute. Luoghi dove non hanno più parenti, amici, di cui forse manco conoscono la lingua. Si parla, in assoluta semplicità, di vite spezzate e di diritti elementari negati da un paese che si vuole civile e avanzato».


Così Roberto Rippa, presidente del Movimento dei Senza Voce, che certo ha manifestato sabato scorso a Bellinzona per la causa di Yasin e sostiene quella di Arlind, ma in nome di un principio che valga per tutti, e non elemosinato a seconda della mediatizzazione di singoli episodi.
«È bene sapere che la Svizzera è un paese severo in materia d’asilo. E peggiorare ciclicamente le leggi significa non conoscere le situazioni e trasformarsi in colpevoli, nascondendosi dietro l’anonimato del voto» conclude Rippa.


Pure Mario Amato, giurista di Sos Ticino, specializzato nel diritto degli stranieri e dell’asilo, evidenzia che di Arlind e Yasan ce ne sono a iosa e senza tante smancerie vengono messi alla porta: quel che sarà, sarà. «Le mobilitazioni e le manifestazioni suscitano emozioni e creano dibattito all’interno della società civile e può essere un fatto positivo, ma non bisogna dimenticare le tante storie drammatiche che sfuggono all’opinione pubblica. Storie che si concludono con espulsioni o allontanamenti a norma di legge, ma spesso devastanti  per i protagonisti».


Dal suo osservatorio Amato osserva una sensibile recrudescenza nella severità con cui vengono trattati i dossier  non solo in materia dei richiedenti l’asilo da parte dell’Ufm (Ufficio federale migrazioni), ma anche i fascicoli di competenza del Cantone: «Siamo solo a febbraio, ma il 2014 in Ticino si è aperto con quasi una decina di decisioni di mancata proroga o revoca dei permessi di soggiorno. C’è il caso del 25enne venezuelano da 12 anni qui da noi e con la madre che, risposatasi, ora vive in un altro cantone e quello di un uomo di mezza età, un cileno arrivato in Svizzera ben trenta anni or sono. Ora, sono chiamati a rientrare nei loro paesi d’origine: possiamo immaginare come potrà essere il rientro in posti dove non hanno più punti di riferimento».


Se ogni storia nelle sue implicazioni  fosse a conoscenza della popolazione, quale sarebbe l’atteggiamento degli svizzeri che da sempre si vantano, a giusta o a cattiva ragione, di possedere una grande tradizione umanitaria? «Parlando d’asilo nel 2013 le domande nel nostro paese sono diminuite rispetto all’anno precedente (–25%), mentre in Europa sono aumentate (+27%). Alcuni paesi del nord Europa hanno senz’altro una politica più accogliente della nostra, altri meno. Ma non si può affermare che la Svizzera sia più generosa. In fondo tutte le revisioni che si sono succedute negli anni hanno  avuto come obiettivo di rendere la nazione meno attrattiva» osserva Amato.


La contrapposizione tra caso singolo e norma generale in tutta la sua ambiguità la fa notare anche lo storico Sacha Zala, ricordando la figura di Heinrich Rothmund, il capo della polizia degli stranieri durante la seconda guerra mondiale: «Da una parte fu uno dei principali fautori di una politica restrittiva verso i rifugiati, dall’altro lato è noto che posto di fronte a casi concreti, durante i suoi sopralluoghi al confine, prese decisioni in favore delle persone che cercavano salvezza in Svizzera». Del resto, continua il direttore di Documenti diplomatici svizzeri e professore alle università di Berna e Zurigo, «la lingua tedesca conosce il termine “Schreibtischtäter”, che forse spiega questi meccanismi, i quali nella loro forma più efferata sono stati al meglio descritti da Hannah Arendt nella sua opera La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme».
Alla fine si torna sempre lì, alla banalità, a discapito dell’umanità.


Ps:.«La Svizzera trae gran parte della propria forza economica proprio dall’apporto dell’immigrazione». Non lo diciamo noi, ma lo scrive Mario Gattiker, direttore dell’Ufficio federale della migrazione. Per Mario Amato «la verità è che entrano solo gli stranieri di cui abbiamo bisogno. Io invece sto dalla parte della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” del 1948. Ogni essere umano deve essere libero di stabilirsi dove vuole, libero di spostarsi: il percorso dell’umanità è sempre stato questo, da quando è comparso l’uomo si è mosso di terra in terra».

Pubblicato il 

20.02.14

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