Il 6 novembre non è cambiato nulla ed è cambiato tutto. Nulla: il presidente degli Stati uniti è sempre lo stesso: Barack Obama; la maggioranza democratica al Senato è rimasta tale, come quella repubblicana alla Camera dei rappresentanti. Sei miliardi di dollari sono stati complessivamente spesi (per tutte le campagne elettorali) per riprodurre la stessa identica situazione. Il presidente rieletto nel 2012 ha tenuto esattamente lo stesso discorso del presidente neoeletto del 2008: siamo tornati a quattro anni fa, al miraggio di collaborazione bipartisan, alla visione di alleanza e unione nazionale, contro la cui irrealtà Obama si è scontrato per tutti gli ultimi due anni.
È cambiato tutto: i due giudici della Corte suprema che andranno sostituiti nei prossimi quattro anni saranno democratici e non repubblicani, e forse si riuscirà a spazzare via la tirannia dei Clarence Thomas e degli Antonin Scalia che così nefasta è stata per il paese (non ultimo per la sentenza che ha reso legittimi i finanziamenti illimitati e anonimi delle campagne elettorali, ma non dimentichiamo la sentenza che nel 2000 scippò ad Al Gore le elezioni e ci regalò otto anni di Bush junior). La pasticciata e discussa riforma sanitaria entrerà finalmente in vigore a pieno regime nel 2014 e forse gli statunitensi potranno giudicarla a posteriori invece di scatenare una guerra civile a priori.
Quali che siano i risultati dei suoi candidati alla Camera bassa, il Tea Party ha subito una decisiva sconfitta politica, perché il voto del 6 novembre ha mostrato che così come si è andato profilando – bianco, omofobo, anti-femminista, razzista, anti-salariati – il partito repubblicano, il Grand Old Party (Gop), sta perdendo il treno della storia. Perciò il Gop deve rifondarsi o condannarsi all'opposizione per i prossimi decenni: deve reinventarsi un nuovo profilo e abbandonare (o mitigare) la "strategia bianca" o "sudista" inaugurata da Ronald Reagan, quella strategia per cui l'invito al localismo fiscale («le tasse vanno spese là dove sono state esatte») si riduceva al rifiuto dei bianchi sudisti di  finanziare le scuole pubbliche nere, gli ospedali neri, l'edilizia popolare per i neri.
Ma sarà il Gop in grado di reinventarsi una linea e un blocco sociale, quindi una cultura? Sembra improbabile. A parte i prossimi due mesi, in cui ancora siederà il parlamento eletto nel 2010, è difficile che il nuovo Congresso possa accettare quei compromessi, quelle intese a mezza strada che ha rifiutato con tale adamantina fermezza negli ultimi due anni. Il verbo del "ridurre le spese" e "tagliare le tasse ai ricchi", il vangelo dello stato minimo ha assunto ormai una valenza così religiosa e fideistica che è quasi impossibile per un repubblicano fare marcia indietro.  È facile profezia predire almeno altri due anni di guerriglia parlamentare (nel 2014 si terranno le elezioni di metà mandato, mid term). E nei due anni successivi il Gop dovrà scegliere il nuovo candidato e anche nel partito democratico si aprirà la lotta alla successione di Obama (Hillary Clinton sta già affilando le armi).
Ed è qui che interviene la natura irresistibilmente conciliatoria di Barack Obama. Come ha scritto su Harper's Thomas Frank (autore di un fondamentale volume What's the Matter with Kansas?), i repubblicani hanno ormai "sgamato" il presidente e giocano al rilancio e al rialzo continuo, sapendo che per volontà di compromesso Obama sarà costretto a seguirli sempre più a destra: «dicono oggi quel che lui dovrà dire domani».
La saggezza convenzionale dei politologi asserisce che nel secondo mandato i presidenti degli Stati uniti sono più audaci che nel primo perché non più vincolati dalla necessità di essere rieletti: ma come quasi tutto ciò che è convenzionale, quest'idea è smentita dai fatti: furono gli ultimi due anni del primo mandato (1934-36), e non il secondo, i più incisivi per il New Deal di Franklin Delano Roosevelt; la svolta reaganiana avvenne nel primo mandato, (sciopero dei controllori di volo, tagli alle tasse) di Ronald Reagan (1980-1984); i peggiori misfatti George Bush li ha compiuti nel primo mandato, tra il 2001 e il 2004 e non nel secondo: due guerre (Iraq e Afghanistan), abrogazione dell'Habeas Corpus, ingenti detrazioni fiscali ai più ricchi. Il secondo mandato di Clinton (1997-2000) fu paralizzato dallo scandalo di Monica Levinski. Perciò, malgrado l'affermazione del presidente rieletto («il meglio deve ancora venire»), non è detto che Obama abbia la volontà di andarci giù più pesante con il "muro contro muro" del Gop: aborre lo scontro e lo evita quando può, ma anche quando non potrebbe.
Parliamoci chiaro: non è stata la sinistra a vincere in America, è l'estrema destra che non è riuscita a conquistare l'egemonia. Quattro anni fa i sindacati speravano che Obama avrebbe riformato la punitiva e vessatoria legge Usa sulla possibilità dei lavoratori di sindacalizzarsi: negli Stati uniti, per poter aderire a un sindacato, in un'impresa prima la maggioranza dei lavoratori deve votare a favore della sindacalizzazione e poi il padrone deve essere d'accordo (cosa che raramente fa e solo dopo scioperi durissimi, a volte durati anni). Questa speranza è andata in fumo. E per ora non se ne parla proprio. Oggi la cosiddetta "classe media" (così viene chiamato negli Usa il mondo dei salariati dipendenti) rischia di scomparire come ceto di lavoratori non poveri, sostituito da un esercito crescente di poveri non disoccupati ma impiegati (i working poors), persone il cui salario non consente un livello di vita decente, non permette cioè quella che è chiamata l'American way of life. Ed è contro questo rischio di estinzione che in Ohio i residui operai dell'industria automobilistica hanno votato (con un esiguo margine) a favore di Obama.
Non ci aspettano negli Usa quattro anni di socialdemocrazia scandinava o di welfare state rooseveltiano e nemmeno di johnsoniana "lotta alla povertà", ma almeno ci siamo evitati quattro anni di selvaggio darwinismo sociale.

Pubblicato il 

09.11.12

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