Vendita

Chiara è una giovane venditrice italiana che abita a pochi chilometri al di là del confine svizzero. Sa che cosa significa lavorare in un regime di flessibilità. Anzi, per dirla con lei, essere costretta a lavorare in un «situazione selvaggia».


Chiara è commessa in una grande catena internazionale di moda: «Ho vissuto sulla mia pelle le conseguenze del pacchetto “salva Italia” creato dal governo Monti nel 2012. Un provvedimento che di fatto ha liberalizzato il terziario in maniera compulsiva: non sono state messe regole, ma tolte tutte quelle che c’erano» spiega la donna. E se togli le regole, vai a toccare i diritti e le conquiste dei lavoratori. Chiara, che si definisce ancora fortunata in quanto la sua realtà è sindacalizzata, descrive precisamente la situazione italiana: «Lavorare tutti i giorni, sempre, continuamente, di giorno e di notte. La domenica e il 25 dicembre i negozi devono restare aperti come se fosse la ricetta magica per ogni male. Ci hanno detto così si faranno ripartire i consumi, si creeranno posti di lavoro. Non è accaduto nulla di tutto ciò».


I benefici non si sono visti, ma gli effetti negativi si sono subito palesati, eccome. La liberalizzazione degli orari di apertura si è abbattuta con un colpo di mannaia su piccoli negozi e medi commerci che non possono permettersi i costi delle aperture notturne. Il che si è tradotto in una «concorrenza sleale e selvaggia. Centinaia di negozi chiusi, imprenditori rovinati, posti di lavoro persi. Questo, a distanza di tre anni, il bilancio del pacchetto “salva Italia”: oltre il danno, la beffa»


Ma loro, le grandi catene, ci guadagnano qualcosa? Parrebbe proprio di no. Le analisi di commercio indicano che tenere su le saracinesche di notte è una perdita: sono più le uscite, che le entrate. Chi va a fare la spesa alle due del mattino? Non si illudano di fare incassi da nababbi durante le ore piccole: fra gli scaffali non si aggira nessuno, se non qualche disperato. Ma se non si può parlare di guadagno diretto, sicuramente di quello indiretto sì. Si chiama fidelizzazione: io, caro cliente, ti offro un servizio no limits, di giorno, di notte, di domenica, a Natale e a Pasqua, ti abituo all’idea che io ci sono sempre, in qualsiasi momento e tu interiorizzerai il concetto.

 

Del resto, il macellaio sotto casa non ti taglia lo scamone a ogni tuo capriccio: noi sì. È un servizio al cliente superfluo, ma costante e martellante che il centro commerciale può dare e su cui punta per abbattere la concorrenza. “Noi ci siamo sempre, gli altri no: scegliete noi che siamo sempre accanto a voi” sembra essere il messaggio, mentre per gli altri commerci si assottiglia la speranza di sopravvivenza.
Questo sul fronte di quella che Chiara ha descritto come una «concorrenza sleale e selvaggia».  Per i dipendenti, in misura maggiore per le donne, la liberalizzazione fa rima con emarginazione ed esclusione sociale. «Al mattino incomincio a lavorare presto, ma per terminare alle 22, durante la giornata i turni mi vengono spezzati a più riprese. Finisco di lavorare quando tutti hanno già cenato e il film serale è già a metà, arrivo a casa attorno alle 23. Preparo cena e prima dell’una di notte non vado a dormire, ma al mattino la sveglia mi tira giù presto dal letto. Le mie 24 ore sono già tutte consacrate al lavoro, quello che mi centrifuga anche di domenica. Spazio per la vita privata, la famiglia, gli amici, una relazione? Difficile ricavarlo. I turni cambiano sempre, io sono in giro dalla mattina presto fino a notte, è complicato incastrarsi con i ritmi degli altri, è un’impresa anche riuscire a organizzare una pizza in compagnia» commenta la giovane venditrice.


Niente più vita personale, mentre appare minacciato «il diritto alla genitorialità. I turni cambiano sempre, si sta fuori casa per 12/14 ore al giorno, come si può organizzare e pianificare il ménage famigliare, l’accudimento dei propri figli? Ho colleghe che fanno i salti mortali, in una situazione di stress inaccettabile, per poter conciliare maternità e lavoro».

Pubblicato il 

16.12.15
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