Maxi tangente ENI

Più volte in passato la Eni ha utilizzato la Svizzera per le sue operazioni occulte. Già negli anni ‘80 e ‘90 il gruppo petrolifero controllato dallo Stato italiano si è servito di banche e società elvetiche per oliare gli ingranaggi delle commesse internazionali e per negoziare affari con paesi in guerra e regimi dittatoriali. Dalla Confederazione venivano anche gestiti i fondi neri che poi sono finiti nelle tasche dei top manager e dei referenti politici in Italia. In epoca più recente l’operato della Eni non sembra essere guarito dal morbo che da sempre attanaglia il mondo del petrolio: la corruzione endemica. Gli ultimi due amministratori delegati del gruppo saranno infatti rinviati a giudizio per concorso in corruzione internazionale. Al centro della vicenda una presunta maxi-tangente versata per una concessione in Nigeria. Mazzetta che sarebbe dovuta riaffiorare in Svizzera ma che, per una volta, è stata respinta e in parte sequestrata.

 

È il 31 maggio del 2011. Alla Bsi di Lugano c’è fibrillazione nell’aria. Un bonifico così non lo si vede certo tutti i giorni: 1,092 miliardi di dollari. L’ordine arriva da Londra, da un conto intestato al governo della Nigeria presso la Jp Morgan Chase. Quel miliardo e “poco” più è atterrato alla Morgan solo da qualche giorno ed è quanto pagato dalla Eni per la concessione del blocco Opl 245, un’immensa area petrolifera nel mare nigeriano. In riva al Ceresio il gruzzoletto ha un destinatario preciso: il conto A209798 intestato alla Petrol Service Co. Lp, sconosciuta società basata alle Isole Marshall. La relazione bancaria è stata aperta da Gianfranco Falcioni, uomo d’affari nato a Domodossola, ma da anni stabilito in Nigeria dove è vice-console onorario italiano a Port Harcourt, nel Delta del Niger. La transazione è sospetta. Come mai, poco dopo aver ricevuto i soldi dall’Eni, il Governo nigeriano ha trasferito l’intero ammontare della concessione ad una scatola vuota associata a un businessman italiano? Una domanda che forse si sono posti anche alla Bsi: il 3 giugno 2011, infatti, i soldi vengono rimandati al mittente. Ragioni di compliance, si dirà. Rifiutata in Ticino, la colossale somma comincia a disperdersi in mille rivoli. Una parte servirà a ingrassare politici nigeriani e a acquistare immobili, jet e Cadillac blindate. Un’altra, secondo la procura di Milano, sarà invece destinata a tangenti per dirigenti e intermediari italiani. Tanto che, alla fine della filiera, 21 milioni rifaranno capolino a Lugano.


La trattativa
La vicenda è una matassa ingarbugliata che si srotola fino in Ticino ma il cui bandolo è in Nigeria, principale produttore petrolifero africano. Qui, più che una manna, l’oro nero è una maledizione: invece che favorire lo sviluppo, il petrolio crea distruzione e avvantaggia solo una piccola élite locale, foraggiata senza ritegno da multinazionali e trader occidentali. Una prassi ben nota in tutta l’Africa ma di cui il caso Opl 245 è forse l’esempio più emblematico.


Tutto comincia nel 1998. Al potere, in Nigeria, c’è lo spietato generale Abacha, uno che solo in Svizzera ha nascosto 700 milioni di dollari. È lui che assegna per 20 milioni il blocco Opl 245 a una società offshore, la Malabu, dietro cui si nasconde l’allora ministro del petrolio Dan Etete. Una volta che quest’ultimo ha in mano la concessione deve solo attendere. Lo sa, Dan Etete, che prima o poi una grossa major busserà alla sua porta e che quel pezzo di mare potrà rivenderlo cinquanta volte quanto gli è costato. È così che, nel 2009, alla porta di Etete (nel frattempo condannato per riciclaggio in Francia), bussano Eni e Shell. Comincia la trattativa ed entrano in gioco vari intermediari: il nigeriano Emeka Obi e i suoi sponsor italiani, Gianluca Di Nardo, faccendiere basato a Lugano, e il pregiudicato piduista Luigi Bisignani, uomo vicino a Paolo Scaroni, allora amministratore delegato di Eni. Le parti s’incontrano, negoziano, cercano di spuntare un po’ di qua e un po’ di là. Ad un certo punto, però, la trattativa s’inceppa. Interviene così il governo nigeriano con il presidente Goodluck Jonathan, che mette (apparentemente) fuori gioco i mediatori e rilascia la licenza a Eni per 1,092 miliardi di dollari. Il gruppo italiano potrà così dire: «Abbiamo trattato soltanto con lo Stato nigeriano».

 

Tutti rinviati a giudizio

Nel 2013, però, dopo un esposto fatto da tre Ong, tra cui l’italiana Re:Common, la procura di Milano apre un procedimento penale.

Indagini lunghe che si sono chiuse a dicembre 2016. L’8 febbraio 2017 i pm hanno chiesto il rinvio a giudizio per Paolo Scaroni, il suo successore Claudio Descalzi e due altri dirigenti di Eni, Roberto Casula e Vincenzo Armanna. Tra gli imputati anche i mediatori intervenuti nella trattativa, tra cui il “luganese” Di Nardo. Rinviato a giudizio anche Gianfranco Falcioni, accusato di aver accettato «il compito, in fase conclusiva della vicenda di distribuire il denaro versato da Eni per la licenza». Proprio a tale scopo il vice-console avrebbe costituito la Petrol Service e aperto il conto alla Bsi di Lugano. Su questo (mancato) bonifico in Ticino la procura milanese non si sbilancia. Per chi ha seguito da vicino la saga, l’ipotesi più accreditata è che esso sarebbe dovuto essere un primo passaggio per poi far perdere le tracce del denaro. In una trattativa nervosa, in cui non ci si fidava l’uno dell’altro, il ruolo di Falcioni potrebbe essere stato quello di garante tra “nigeriani” e “italiani”. Ma la fretta di spartirsi il miliardo non ha fatto i conti con l’ufficio compliance della Bsi, lo stesso che da lì a pochi mesi non riserverà la stessa intransigenza ai miliardi sottratti al fondo malese 1Mbd.


Da verificare, però, se la banca non sia stata imboccata da qualche sabotatore interno alla trattativa. Il Fatto quotidiano ha infatti riportato le deposizioni di Vincenzo Armanna, secondo cui egli stesso avrebbe inviato missive anonime alla Bsi preannunciando l'arrivo del denaro. Per Armanna la scelta della banca ticinese era troppo rischiosa: Bsi era allora controllata da Generali, nel cui cda sedeva l’ad di Eni Scaroni.
Fatto sta che la tesi dei pm è che il denaro pagato per vedersi attribuiti «senza gara» l’Opl 245 è finito tutto in mazzette. Il Governo nigeriano si sarebbe prestato al ruolo ufficiale per permettere alla trattativa di andare in porto e garantire all’Eni un partner “credibile”. Ma la trattativa, nata corrotta, sarebbe stata marcia fino alla fine. Il percorso del denaro precedentemente respinto dalla Bsi conferma infatti la spartizione delle prebende. La parte principale di quel miliardo, più di 800 milioni, è ritornata dapprima alla Malabu, sorta di schermo per far arrivare le presunte mazzette a vari politici nigeriani, tra cui il presidente Jo-nhatan e Etete.


Ma non solo. Dal documento di chiusura delle indagini, di cui area dispone una copia, emerge anche che circa 200 milioni di dollari sarebbero stati destinati «alle retrocessioni ad amministratori Eni». Tra questi 50 milioni di dollari in "contanti" consegnati a Roberto Casula" e 900.000 euro versati a Armanna. Una parte è invece ritornata in Svizzera: sono i circa 120 milioni di dollari trasferiti dal mediatore Obi da conti londinesi presso la Lgt Bank di Ginevra. Da qui, nel maggio 2014, 21,2 milioni di franchi sono poi trasferiti sul conto «di Gianluca Di Nardo presso la Banca Sarrasin di Lugano». Entrambe le relazioni sono però state bloccate dal Ministero pubblico della Confederazione che, nel 2014, ha deciso di dare seguito alla rogatoria italiana. La vicenda dovrà ora trovare riscontri in fase processuale. Per ora una sola cosa è certa: ai cittadini nigeriani di tutti questi soldi non è arrivato nulla.

Pubblicato il 

08.02.17
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