Ha appena festeggiato, in silenzio, i suoi primi 18 mesi di vita. È ancora un bebè. Sperato, desiderato, voluto da molte donne, con la stessa forza e la stessa passione con cui si può desiderare di diventare madri, il congedo maternità è dovuto passare attraverso molte dure battaglie. Un parto difficile – ultimo ad esser nato in Europa – è passato attraverso aborti-votazioni mancate: ma alla fine ha visto la luce il primo luglio 2005, quando, le quattordici settimane pagate all'80 per cento sono diventate una realtà per tutte le lavoratrici. A più di un anno di distanza, qual è il bilancio del primo anno di vita? Ne abbiamo discusso con alcune addette ai lavori.

L'ottenimento delle 14 settimane pagate all'80 per cento è un passo importante. Ma più che di una conquista si tratta di un passo avanti verso il riconoscimento di uno stato "interessante" della donna, "interessante" sia per lei stessa, confrontata con il fenomeno privato della maternità, ma anche per la società. La nascita di un figlio, infatti, è anche un fenomeno che coinvolge tutta una nazione. Un figlio costituisce il futuro. La società deve rendersene conto facendo il possibile perché l'ingresso nel mondo sia facilitato o, quantomeno non ostacolato. Per capirlo la Svizzera sta impiegando un po' più di tempo rispetto ad altre nazioni. In alcuni casi, tuttavia, lo si è capito da tempo. «In alcuni settori, l'introduzione del congedo maternità a livello nazionale non ha portato alcun cambiamento visto che il codice in vigore era già molto più solido. In altri, l'introduzione della nuova normativa ha addirittura spinto a fare di più, proponendo 16 o 18 settimane, a salario pieno», – afferma Ginevra Signer, segretaria sindacale di Unia a Berna. «A titolo di esempio, posso citare l'industria chimica e l'industria farmaceutica basilese, l'industria per il cemento Holcim, l'impresa della ristorazione nei treni Elvetino e alcune altre imprese dell'industria alimentare. Queste hanno tutte scelto spontaneamente di passare alle 18 settimane pagate al 100 per cento. Nel settore metalmeccanico ed orologiero si è saliti a 16 settimane», spiega ancora Ginevra Signer.
E se alcuni contratti collettivi di lavoro (ccl) hanno dato una mano in più alle madri, è bene segnalare che anche diversi cantoni fanno meglio della legge federale. È soprattutto la Romandia ad avere condizioni migliori: l'esempio faro è quello del canton Ginevra in cui le settimane concesse alle neo-mamme sono ben 20, pagate al 100 per cento. Idem in caso di adozione.
Per i padri è previsto un congedo di cinque giorni cui aggiungere un congedo parentale (per la madre o il padre) non pagato, di due anni e 15 giorni di congedo all'anno per occuparsi di un figlio malato.
Altri cantoni romandi seguono questa linea. Recentemente, il canton Vaud ha deciso di introdurre un congedo di quattro mesi alle madri che adottano un figlio e di due mesi ai padri. Ma siamo lontani dall'essere la regola... «Il congedo per i padri e quello in caso di adozione sono ancora molto rari in Svizzera. Philipp Morris, ad esempio, oltre a concedere da tempo cinque mesi di congedo alle donne, al 100 per cento, permette un mese in caso di adozione da dividere tra mamma e papà», racconta la segretaria sindacale che prosegue:  «Noi facciamo il possibile per inserirlo nei ccl ma è difficile: proprio per questo intendiamo lanciare una campagna nozionale insieme agli altri sindacati attraverso la quale portare avanti anche questi due temi». In alcuni casi, il ccl non prevede un congedo paternità ma vi è una clausola secondo cui è possibile chiederlo se l'impiegato lo desidera. «Il sindacato consiglia ai datori di lavoro di concedere quattro settimane per i congedi paternità», afferma la sindacalista.
Premesso che in Svizzera esistono  differenze tra cantoni e cantoni e tra ccl e ccl, è lecito chiedersi se almeno la legge di base sia sempre rispettata. «Ancora troppo spesso siamo confrontati con datori di lavoro che non sono a conoscenza del modo in cui devono applicare esattamente le indennità (o forse un po' fingono di non sapere...)», commenta la signora Signer che aggiunge: «Proprio in questi giorni ho avuto modo di parlare con una donna incinta e in perfette condizioni di salute alla quale il datore di lavoro ha ridotto il salario al 70 per cento, già prima del parto, iscrivendola per il 30 per cento all'Assicurazione invalidità. Questo perché ha considerato la donna incapace di rendere appieno, pur costringendola a presenziare sul posto di lavoro al 100 per cento. Come conseguenza, la donna ha percepito un'indennità per maternità calcolata sul tempo parziale». O ancora: «Una donna incinta, in piena salute, è stata costretta rimanere a casa già due settimane prima del parto perché considerata malata dal datore di lavoro che pretendeva di contare queste due settimane come fossero già parte del congedo maternità. Questa è furbizia...» sostiene Signer, la quale ci confida l'esistenza di altre situazioni limite riguardanti settori prevalentemente maschili come l'artigianato o la costruzione. «In questi settori, benché la legge federale sia chiara, nei ccl non figura sempre il congedo maternità. Il motivo? Abbiamo talmente poche donne… rispondono i responsabili», racconta Signer.
Ma a creare problemi è anche un settore tipicamente femminile: quello della coiffure. Prima dell'entrata in vigore della legge federale, il settore dei parrucchieri vantava un congedo maternità di 16 settimane. Ora si sono omologati al contesto nazionale con la conseguente riduzione di due settimane...
I problemi, dunque, non mancano: e nemmeno scompaiono una volta terminato il congedo maternità.
Primo punto d'ombra: le donne hanno diritto a 14 settimane di indennità ma sono protette fino a 16 settimane dopo il parto. Ossia, se per motivi di salute sue o del bimbo, la donna dovesse rimanere a casa anche durante la 15esima e la 16esima settimana dopo il parto, può farlo. Ma senza percepire nessuna indennità. «Perché essere protette fino a 16 settimane ma pagate solo fino alla 14esima?», si interroga Ginevra Signer.
E in caso di malattia oltre la 16esima settimana? «Altro nodo da sciogliere! La legge prevede che quando un bimbo è malato, i genitori – la madre o il padre a scelta – possono rimanere a casa fino a tre giorni per ogni caso di malattia. Quello che la legge non dice è chi paga quei tre giorni. Da qui i problemi. Tanti che a volte le donne preferiscono dire che sono loro stesse malate piuttosto che il bambino, altrimenti rischiano di vedersi ridurre i giorni di vacanza», spiega Ginevra Signer.
Ma i problemi post-parto non sono finiti: «Il congedo maternità è previsto anche per le donne disoccupate. In questi casi, il problema è il seguente. Il Segretariato di Stato per l'economia vieta a tutte le donne di riprendere qualsiasi attività lavorativa nel corso delle prime otto settimane dopo il parto così da permettere alla donna di occuparsi del proprio bambino ed abituarsi al nuovo status di mamma. Tuttavia, nello stesso tempo, obbliga le madri disoccupate a iniziare le ricerche di lavoro già a partire dalla quinta settimana. Questa è una discrepanza ingiustificata che vogliamo eliminare», assicura la sindacalista.
In parallelo al congedo maternità, si dovrebbe forse anche fare di più affinché gli asili nido aziendali non siano solo un lusso di poche, grandi, aziende come è soprattutto il caso oggi. L'ideale sarebbero asili nido in comproprietà tra varie aziende situate nello stesso quartiere così da permettere a tutte le mamme di ritornare a lavorare, sapendo che il proprio figlio è comunque a pochi metri da lei. Affaire à suivre...

Ticino: il rientro "dimezzato" è un lusso

E in Ticino qual è lo stato di salute del congedo maternità? Ne abbiamo parlato con Ivana Ghioldi, segretaria sindacale Unia.
Devo ammettere che la nuova legge è stata applicata con giudizio in tutte le aziende del cantone dove ormai le 14 settimane pagate all'80 per cento sono una realtà assodata. I sindacati hanno contribuito a diffondere l'informazione sia presso i datori di lavoro, sia presso le lavoratrici per cercare di colmare i vuoti e limitare i casi di "ignoranza".
Ma è tutto così rose e fiori?
Purtroppo no: uno dei grossi problemi, o meglio, il problema per eccellenza che sorge quando una donna non può più svolgere la sua professione durante la gravidanza, o per motivi di orari o per condizioni di lavoro. La legge sul lavoro prevede che il datore di lavoro trovi sempre un'alternativa valida da offrire alla lavoratrice. Il vero problema non è tanto la conoscenza della legge (in parte tuttavia ancora sconosciuta alle lavoratrici), quanto piuttosto la disponibilità del datore di lavoro a trovare una soluzione: spesso e volentieri questa opzione non viene data e non è raro vedere donne licenziate. Se questi casi ci vengono segnalati noi interveniamo immediatamente contro il datore di lavoro: questo tipo  di licenziamento è nullo perché illegale.
Proprio in questi giorni stiamo trattando il caso di una signora, impiegata in un night-club che aveva fatto richiesta al suo datore di lavoro di avere un lavoro equivalente di giorno, in un ambiente con meno fumo. In contropartita il datore di lavoro, invece di trovarle una soluzione, le ha fatto recapitare una lettera di licenziamento.
Ma se il datore di lavoro non potesse, malgrado la volontà, fornire un'alternativa?
La donna può restare a casa e il datore di lavoro è obbligato a pagarla al 100 per cento durante tutto il periodo della gravidanza. A parto avvenuto, interverranno le normali misure previste dal congedo maternità.
Le donne pendolari che sono attive professionalmente in Svizzera, secondo la legge, possono beneficiare delle indennità di maternità. Esistono casi in cui i datori di lavoro cercano di affogare questo diritto?
Per fortuna, con gli accordi bilaterali sono sempre meno i casi di datori di lavoro che cercano di negare i diritti a donne che prima di lavorare in Svizzera hanno lavorato in Italia o in un altro stato dell'Unione europea. Quello che conta è che la donna sia assicurata da almeno nove mesi, periodi questi cumulabili tra loro, ossia indipendentemente dalla nazione di lavoro: i contributi versati altrove contano e danno diritto al congedo.
Nella fase post-parto, passato il periodo di congedo maternità, quanto è facile per una donna occuparsi del proprio bambino il quale deve essere ancora allattato?
L'allattamento è un discorso molto complesso: stando alla legge il datore di lavoro deve dare la possibilità alla donna di organizzarsi per poter allattare il bambino. Tuttavia, la stessa legge non prevede regole precise sull'applicazione. Di conseguenza la pratica dipende dall'accordo che la donna riesce a stringere con il proprio datore di lavoro. Per questo motivo da questo punto di vista i problemi possono effettivamente sorgere.
Congedo paternità e congedo in caso di adozione sono due altri nodi che ancora non sono venuti al pettine...
Di certo il canton Ginevra è il modello per eccellenza: visto che ormai da tempo questi due tasselli sono compresi nel suo pacchetto "maternità". Tutto quello che per ora esiste, anche in Ticino, è previsto singolarmente e varia da contratto collettivo a contratto collettivo. A volte siamo riusciti a includere anche queste due rivendicazioni ma per la maggior parte dei casi tutto resta da fare. Il congedo così come lo conosciamo oggi è per noi soltanto una tappa intermedia: minimo puntiamo alle 16 settimane pagate al 100 per cento per le madri e alle 8 settimane per i padri.
Non sono rari i casi di donne che, una volta diventate madri, decidono di ritornare a lavorare ad una percentuale inferiore. Realtà o utopia?
È una realtà nel senso che sempre più spesso le donne  auspicherebbero poter continuare a lavorare senza, nel contempo, trascurare la fase di crescita di loro figlio almeno per i primi due o tre anni di vita. Tuttavia, non essendoci normative in tal senso, spesso i datori di lavoro rifiutano la richiesta di un rientro a tempo parziale, proponendo come unica alternativa il licenziamento.

Pubblicato il 

26.01.07

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