Quando qualcosa va male o non si esce da una situazione difficile che si protrae da tempo, politica, economia, popolo, cercano le colpe su qualcosa di “esterno”. È la costruzione del capro espiatorio o la fuga per la tangente di fronte alle responsabilità. La politica si appiglia all’insicurezza, alla libera circolazione delle persone, all’immigrazione, all’eccesso di protezione sociale, alla spesa pubblica, alla cessione della sovranità. L’economia aggiunge le troppe regole, la burocrazia statale, le imposte, la competitività penalizzata, persino gli orari di apertura dei negozi. Il popolo se la prende con gli “altri”, frontalieri, immigrati, funzionari pubblici. Il Ticino è un esempio plurisecolare di tutto questo. La parola “rivendicazione” torna spesso nella sua storia. Che il Ticino sia alle volte poco considerato, è vero. Che possa diventare una giustificazione alle sue incapacità, non è serio.
Non è il caso di riproporre il caso clamoroso della Bsi. Per due motivi generalizzabili può però interessare. Il primo perché si finisce appunto per attribuire a una autorità esterna, l’autorità di vigilanza sui mercati finanziari (la Finma), un accanimento contro la piazza finanziaria ticinese. Si sposta la radice del male. Il secondo perché il caso fa emergere una particolare mentalità, una sorta di “cultura”, che non riesce più a nascondere altre responsabilità, politiche, economiche.


La piazza finanziaria ticinese è frutto delle disgrazie italiane, delle quali ha sempre saputo nutrirsi. Del paradosso Italia che esporta chi cerca lavoro per vivere e capitali, bianchi o sporchi, da nascondere. Detto un po’ cinicamente, il Ticino poteva approfittarne, offrendo solidità politica, minor rischio, certezza del diritto e disponendo capitali da investire nell’economia reale, sempre carenti da questa parte. Non è avvenuto: per competenze scarse o scarso acume, per avidità da neoarrivati, per appropriazione delle centrali zurighesi. Dagli anni Ottanta trionfa poi, in modo sempre più perverso, il meccanismo della deregolamentazione e dalla globalizzazione, con il denaro che serve a moltiplicare denaro, per essere sempre più performanti, non tanto per fabbricare beni, quanto profitti e dividendi sbalorditivi per gestori e azionisti affamati.


Questa mentalità, priva di etica e senso civico, è attecchita in maniera mirabile nel Ticino. Con le banche e con tutto l’apparato di quella che viene definita la banca o la finanza ombra, uffici fiduciari o studi commerciali in sovrapproduzione. Non si può negare che i casi di malversazioni o di truffe siano abbondantemente cresciuti, mettendo sotto continua pressione un numero incredibile di procuratori, sostituti, giudici e tribunali. Non ne è scaturita una buona immagine della piazza finanziaria. Quindi, è fatale che una volta tanto gli organismi di sorveglianza finiscano per giocare al castigamatti. Per riquadrare le cose.


Se prescindiamo da tre fattori che hanno la loro importanza, l’occupazione (comunque già dimezzatasi in vent’anni), la fiscalità (più che dimezzatasi in sette anni), l’apporto al prodotto interno lordo del cantone (pure dimezzatosi in sette anni), non c’è mai stata una vera e propria osmosi creativa tra piazza finanziaria ed economia territoriale ticinese, fatta qualche eccezione per il mattone.Si son sempre preferiti gli affari e le speculazioni verso i mercati finanziari globalizzati “con una intensità monomaniacale” (osserva il professor Sergio Rossi). Chi ci ha perso non è una banca, epifenomeno di quella cultura, quanto tutto il Ticino.

Pubblicato il 

30.06.16
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