Come nasce l'ansia di tornare

A questo punto, Hassan Al Isawi e sua moglie Rana non vedono l’ora di partire. Un mese fa hanno chiesto lo stralcio della loro domanda d’asilo che per anni ha dormito nei cassetti dell’Ufficio federale dei rifugiati a Berna. Non vogliono andare in Iraq – troppo pericoloso –, ma negli Emirati arabi uniti dove Hassan potrebbe tornare a fare l’ingegnere civile e la sua famiglia – Rana, i figli Hebe di 4 anni e Hussam di 2 – a immaginarsi un futuro. Nelle ultime settimane Hassan e Rana hanno venduto i pochi mobili che avevano: il letto matrimoniale, quello della bambina, il tavolo, l’antenna parabolica, l’acquario. L’appartamento in via Bramantino a Locarno è mezzo vuoto. Nel salotto restano solo un tavolino con quattro sedie, due poltrone, il televisore, i giocattoli dei bambini, alcuni compact disc appoggiati su una mensola. Hebe non va più all’asilo da una settimana. Rana brama la partenza, ma è logorata dall’incertezza: mente e cuore le dicono che la Svizzera fa già parte del passato, però mancano ancora i visti per gli Emirati arabi, i soldi per i biglietti. Hassan si sta facendo in quattro per averli. Quella di Hassan, Rana, Hebe e Hussam non è una storia eccezionale. È l’esperienza comune a migliaia di persone che depongono una domanda d’asilo in Svizzera per poi scontrasi con le più o meno misteriose logiche della burocrazia umanitaria elvetica. Nel racconto di Hassan la cronaca di un incontro mancato, di un viaggio dalla speranza di arrivare all’ansia di tornare. Hassan Al Isawi ha 49 anni. Secondo di cinque fratelli e sei sorelle, è nato nella città santa sciita di Najaf, 160 chilometri a sud di Baghdad. All’università Technologia della capitale irachena si laurea nel 1979 in ingegneria civile. Lavora al Ministero delle costruzioni fino al 1988, quando viene arrestato. Un amico, come lui militante nel partito sciita di opposizione Al Dawaa Al Islami, finisce nelle mani della polizia e fa il suo nome. Hassan passa sei mesi nella prigione di Najaf, poi tre in quella di Nassirya. Botte e torture fino al processo. Condannato a morte in prima istanza il 21 dicembre ’88, la pena viene commutata in 15 anni di detenzione. È trasferito a Baghdad nella sezione riservata agli oppositori politici della prigione di Abu Ghraib (divenuta famosa recentemente a seguito delle rivelazioni sulle torture inflitte dai militari statunitensi). Lì ritrova sette amici e con loro pianifica la fuga. Assieme falsificano il timbro che viene stampato sui polsi dei visitatori. Alle 13.56 del 22 febbraio 1991 Hassan è l’ultimo del gruppo ad uscire fra parenti e amici dei prigionieri. È la vigilia dell’offensiva terrestre dell’operazione alleata “Tempesta nel deserto”, a cui Bush padre metterà un termine cinque giorni dopo lasciando le popolazioni sciite e curde alla mercé dei soldati di Saddam Hussein: «Il 28 febbraio – ricorda Hassan – è cominciata l’Intifada e io ero a Najaf. Tutto il popolo era insorto mentre cadevano le bombe americane. Gli Stati Uniti avevano promesso di aiutarci, invece hanno aiutato Saddam Hussein a riprendere il controllo della situazione, a reprimere la rivolta, ad ucciderci. Io stesso ho visto un Phantom americano “sorvegliare” un elicottero dell’esercito iracheno che buttava bombe sui civili». “Condividiamo la sua sofferenza” Per sfuggire alla mattanza, Hassan ripara in Arabia Saudita. Passa nove mesi nel campo di rifugiati di Rafha e inoltra una domanda d’asilo all’ambasciata elvetica di Ryadh. «Le autorità svizzere sono ben coscienti delle difficoltà che sta incontrando in queste circostanze e condividono la sua sofferenza. Al riguardo siamo in stretto contatto con l’ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr)», gli risponde il 25 novembre 1991 l’incaricato d’affari R. T. Knoblauch. Arrestato di lì a poco e rispedito in Iraq («l’Arabia Saudita era ostile a noi sciiti»), Hassan sopravvive per un paio d’anni da clandestino nel suo paese. Conosce e sposa Rana. Nel ’94 parte da solo per la Siria, quindi va in Libano dove il 17 ottobre 1995 l’Unhcr gli consegna il passaporto di rifugiato. Torna in Siria e a Damasco lo raggiunge la moglie Rana. Nelle mani la lettera ricevuta a Ryadh, decidono di partire per la Svizzera. Passano in auto il confine con la Turchia, poi salgono su un camion che in qualche giorno li porta al confine franco-svizzero. «Un viaggio durissimo – ricorda Hassan – perché stavamo tutto il tempo fra i cartoni nel camion, senza sapere dove eravamo. Scendevamo solo per i bisogni». Giunti a Ginevra, il 1. dicembre 1997 chiedono asilo politico. Comincia l’attesa. Daccapo, cinque anni dopo Il 4 dicembre Hassan e Rana vengono trasferiti a Chiasso. Una settimana e mezzo al Centro di registrazione per richiedenti l’asilo, poi al Centro d’accoglienza della Croce Rossa di Claro, infine – nove mesi più tardi – in un appartamento di Soccorso operaio svizzero (Sos) a Locarno. Il 14 gennaio 2000 l’Ufficio federale dei rifugiati (Ufr) respinge la domanda d’asilo, ma concede ad Hassan e a sua moglie Rana (nel frattempo, il 1. dicembre ’99, è nata la figlia Hebe) l’ammissione provvisoria (permesso F): «non capivamo: eravamo stati a Berna due giorni interi, da mattina a sera, a spiegare la nostra storia: ma non ci hanno voluto credere», ricorda Hassan. (1) Il servizio giuridico del Sos inoltra ricorso contro il mancato riconoscimento della persecuzione individuale, condizione indispensabile per l’ottenimento dell’asilo. La risposta arriverà 2 anni e 10 mesi dopo: tutto da rifare. Accogliendo l’istanza, il 6 dicembre 2002 la Commissione di ricorso in materia di asilo (Cra) rinvia gli atti all’Ufr affinché vengano completate le lacunose indagini effettuate in sede di prima istanza. L’Ufficio dei rifugiati aveva ritenuto inverosimili le allegazioni concernenti le attività politiche di Hassan, la sua detenzione e l’evasione da Abu Ghraib, il rientro in Iraq, il matrimonio nonostante fosse ricercato per il ruolo svolto nell’Intifada del ’91. L’Ufr non aveva escluso che Hassan potesse essere membro di Al Dawaa Al Islami, però non aveva condotto degli accertamenti per verificarlo. Nessuna verifica nemmeno in relazione a eventuali legami con la situazione del padre di Rana, che aveva già ottenuto asilo in Svizzera. Ma soprattutto nessuna verifica dal profilo dell’art. 54 della Legge federale sull’asilo, in base al quale è considerato rifugiato anche chi può far valere motivi soggettivi insorti dopo la fuga dal paese d’origine. Nel caso di Hassan, il semplice fatto di essere uscito illegalmente dall’Iraq – indipendentemente da eventuali persecuzioni subite in precedenza a causa della sua militanza politica – avrebbe costituito motivo sufficiente per essere riconosciuto come rifugiato. Era noto a tutti, infatti, che il regime di Saddam Hussein sottoponeva a torture chi rimpatriava dopo essere uscito illegalmente dal paese. Benché motivo di speranza, la sentenza della Commissione di ricorso significa anche ricominciare tutto daccapo 5 anni dopo essere arrivati in Svizzera. Per di più di lì a tre mesi – nell’imminenza dell’avvio dell’invasione anglo-statunitense – l’Ufficio federale dei rifugiati decide di congelare l’esame delle domande d’asilo dei richiedenti iracheni e l’esecuzione dei rinvii. (2) La moratoria significa prolungare l’attesa. E forse anche spostare pian piano – sebbene in un primo tempo in maniera inconscia – l’obiettivo della speranza da Berna a Baghdad. “Vorrei spendere i miei soldi” «Avrei voluto rendermi indipendente, non più essere dipendente per il cibo, l’appartamento, eccetera. Alle persone di Soccorso operaio dicevo: “non mi piace la vostra assistenza, io voglio spendere i miei soldi”». Hassan tenta più volte di trovare un impiego che in un qualche modo valorizzi la sua laurea in ingegneria civile. Senza successo. L’agenzia di collocamento Adecco gli comunica un giorno di aver trovato un impiego adeguato alle sue qualifiche e lo manda in Polizia a farsi timbrare un formulario: «questo è un lavoro per noi svizzeri», gli rispondono. Hassan si iscrive quindi alla Scuola professionale superiore della Svizzera italiana (Supsi). Frequenta un semestre dall’ottobre 2001 al febbraio 2002, poi deve rinunciare – nonostante avesse ottenuto buone note agli esami sostenuti – per mancanza di soldi. Oltre all’aiuto finanziario canalizzato da Soccorso operaio (3), Hassan per qualche mese porta a casa 3 franchi all’ora ripulendo marciapiedi e sentieri per i comuni di Locarno e Intragna. Chiede il permesso di allestire una bancarella un giorno alla settimana in piazza a Locarno, ma come richiedente l’asilo non può esercitare un’attività indipendente (la risposta negativa gli costa 70 franchi). Rana allora si mette a cucinare specialità arabe la cui vendita “in nero” consente alla famiglia Al Isawi di sentirsi un po’ meno dipendente senza però alleviare una sensazione di provvisorietà che si fa viepiù pesante: «Non possiamo andare in altri paesi, nemmeno in Italia a fare la spesa. Non possiamo lavorare, non possiamo nemmeno visitare la famiglia della moglie che vive a Lugano perché non abbiamo abbastanza per il treno. Sette anni qui a Locarno, quasi come animali. Anzi, almeno gli animali possono viaggiare da un paese all’altro… La Svizzera dice di essere democratica, ma non è così», dice Hassan. Saddam, ma non solo Hassan e Rana decidono di lasciare la Svizzera lo scorso mese di gennaio. Il 13 dicembre Saddam Hussein era stato catturato in fondo a un cunicolo in un villaggio del nord dell’Iraq. «Il mio problema era Saddam, e lui non c’era più», spiega Hassan. Ma non c’entra solo la fine del raïs. Da tempo, infatti, erano andate scemando le capacità di resistenza al logorìo di un’attesa per una risposta che da Berna non giungeva mai (nel 2003 Hassan finisce due volte al Cardiocentro di Lugano): «Sono stati sette anni difficili per noi, anche se diverse persone ci hanno aiutati. I “federali” non hanno fatto nulla. Abbiamo scritto almeno una decina di lettere, non ci hanno mai risposto. Ma quando ho chiesto di stralciare la domanda d’asilo, appena tre settimane dopo mi hanno fatto sapere di aver annullato la mia richiesta», osserva Hassan che aggiunge: «Ci siamo anche detti che dobbiamo costruire la nostra vita. Qui in Svizzera non ho risposte. Vedo i miei figli che non possono vivere normalmente, anche perché qui le tradizioni sono molto diverse dalle nostre. Io devo lavorare, e qui non posso farlo. Ho studiato ingegneria civile per lavorare, non per mangiare e dormire». Una volta ottenuti visti e soldi per il viaggio, Hassan, Rana, Hebe e Hussam andranno negli Emirati arabi uniti. L’Iraq per ora è troppo pericoloso: «Non c’è acqua, mancano le medicine, la sicurezza non è garantita. Cade una bomba qua e una là. A Najaf, poi, la situazione è veramente difficile. Io voglio solo tranquillità per la mia famiglia. Quando l’Iraq sarà tranquillo, allora torneremo». Hassan è ottimista, anche se non dimentica che oggi alla Casa Bianca c’è il figlio di quel Bush che nel ’91, dopo aver incoraggiato sciiti e curdi a rovesciare Saddam Hussein, li lasciò massacrare senza muovere un dito: «Gli Stati Uniti stanno facendo come Saddam: invece di garantire la sicurezza creano tensioni. D’altronde, chi ha aiutato il raïs negli anni ’80? Chi l’ha aiutato durante l’Intifada del ’91? E poi gli Stati Uniti stanno rubando il petrolio: non riconoscerlo sarebbe da stupidi». «Comunque – aggiunge – il futuro dell’Iraq lo vedo positivo. Sono meno ottimista per la Svizzera…». Se non avessero ritirato la domanda d’asilo, Hassan e Rana avrebbero avuto buone possibilità di ottenere lo statuto di rifugiato. Forse in fondo lo sanno, ma non ci hanno più creduto. Ai margini della società, dove la Confederazione costringe migliaia di richiedenti tenuti per anni a bagnomaria in attesa di una risposta, l’ansia di tornare trova terreno fertile. La politica d’asilo svizzera è anche questo: una fabbrica di incontri mancati. (1) All’epoca la prassi dell’Ufr nei confronti degli arabi iracheni era basata su un principio: benché le condizioni per l’asilo politico non fossero date, il rinvio nel paese d’origine non era ragionevolmente esigibile in quanto i richiedenti rimpatriati sarebbero andati incontro a pericoli concreti. (2) La moratoria è stata levata a fine gennaio 2004. (3) Oltre ad affitto e cassa malati, Berna versa a ogni richiedente l’asilo ospitato in un appartamento 450 franchi al mese (280 per il primo figlio, 260 per il secondo).

Pubblicato il

18.06.2004 03:30
Stefano Guerra
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