Fiat e il suo divorzio all'italiana

Finalmente la Fiat è tornata in mani italiane e il tricolore svetta sulla pista di prova del Lingotto. Gli americani della General Motors hanno mollato l’osso sborsando 1,55 miliardi di euro per liberarsi dall’obbligo di acquistare l’intera produzione automobilistica italiana. Ora la Fiat è libera di cercarsi nuove alleanze e riprendere a volteggiare nel libero mercato globale delle quattro ruote. È questa, press’a poco, l’immagine che la multinazionale torinese cerca di dare di sé attraverso i messaggi pubblicitari e nelle relazioni con i suoi interlocutori, con il governo e la politica e, indirettamente, con i sindacati verso cui peraltro presta molto rispetto ma ben poca attenzione. Il capo supremo del management del Lingotto, Sergio Marchionne, forte del buon esito della trattativa con gli americani, ha avocato a sé tutti i poteri liquidando in quattro e quattr’otto l’amministratore delegato dell’auto, Herbert Demel. E dice: abbiamo un unico settore in difficoltà, l’automobile, tutto il resto è venduto come la Rinascente o va bene, dunque concentriamo le nostre forze sul figlio malato. Sarà vero, ma in molti sollevano dei dubbi (e in pochi credono che i soldi guadagnati con la vendita della Rinascente finiscano all’auto). Non tanto perché fino a poche settimane prima dell’accordo-rottura con Gm la presenza americana era presentata come un valore, un investimento: tanto la prima che la seconda posizione attengono alla propaganda. Il dubbio vero riguarda il futuro, più che il passato o il presente. Riguarda cioè le reali intenzioni di Marchionne. Che approssimativamente, almeno secondo i sindacati, si potrebbe semplificare così: l’obiettivo del leader del Lingotto è il risanamento del bilancio, costi quel che costi e paghi chi deve pagare, cioè lo stato attraverso l’uso sempre più massiccio degli ammortizzatori sociali. Se questo fosse davvero il fine ultimo, le conseguenze industriali, produttive e sociali sarebbero molto pesanti. Già oggi lo stabilimento Alfa di Arese è, se non morto, agonizzante; a Mirafiori la produzione occupa si e no un terzo dell’intero perimetro della fabbrica; Termini Imerese ha un futuro produttivo solo a brevissimo termine e i salari dei lavoratori si chiamano cassa integrazione; Cassino si sta rinsecchendo di mese in mese e domani chissà; gli unici stabilimenti non colpiti duramente dalla crisi e dalle scelte torinesi sono quelli di Melfi, Pomigliano d’Arco e la Sevel in Val di Sangro che produce per Fiat e Peugeot. Ma è lo stesso Marchionne a legittimare una lettura non propriamente ottimistica. Non è un mistero per nessuno che le prospettive di vendite per la Fiat nel primo semestre del 2005 sono pessime, dato che il primo nuovo modello importante dal punto di vista dei numeri è previsto in autunno, la nuova Punto. Nell’anno in corso l’unica altra vettura importante è l’Alfa 159, a cui si aggiungono la Croma e il coupé disegnato da Giuggiaro - la Brera. Il ritardo dei nuovi modelli spinge il Lingotto e il suo top management non a intraprendere con coraggio un cambiamento di passo, di strategie e di piano bensì a ridurre sprechi, spese e perdite per portare al minimo il rosso nel bilancio 2005 e annullarlo nel 2006. Operazione sensata che però, fatta a bocce ferme, otterrebbe l’unico risultato di conquistare il break-even in un’azienda drasticamente ridimensionata. Basta chilometri zero, basta vendite “a perdere” per tenere faticosamente la quota di mercato in Italia vicino al 30 per cento. Dunque, vendiamo di meno ma guadagnando e non buttando soldi per ogni nuova vettura immessa sul mercato. L’urgenza di Marchionne è proprio questa, il pareggio di bilancio entro il 2006. Di conseguenza, prendendo per buona l’intenzione di non mettere mano (nell’immediato) ai licenziamenti e alla chiusura di stabilimenti in Italia, non resta che aumentare progressivamente le ore di cassa integrazione e la quantità di manodopera interessata. Presto non saranno più soltanto gli operai a pagare con una riduzione di salario e di aspettativa di lavoro il costo della crisi, toccherà anche ai colletti bianchi. In parole povere, lo stato aumenterà il suo intervento in Fiat ma non per consentirne il rilancio, bensì per accompagnarne il declino. E non è mai stato smentito completamente il presunto documento indirizzato dal Lingotto alle banche creditrici in cui si annuncerebbe la chiusura a medio termine di due stabilimenti, quello di Termini Imerese e quello di Cassino. Non ha torto la Fiom, quando dice che per invertire la tendenza al declino della Fiat servono subito un bel po’ di soldi da destinare alla ricerca e all’innovazione del prodotto in chiave ambientalista e un vero piano industriale. Obiettivi difficili da raggiungere senza un intervento dello stato nella proprietà del Lingotto, di segno opposto a quello in atto e che prosegue una tradizione secolare. Dicevano al Lingotto che il divorzio con Gm avrebbe finalmente aperto la strada a nuove alleanze internazionali, se non strategiche, tecniche. Ora Marchionne sembra non avere una gran fretta, essendo che la durata dei modelli garantisce un periodo di un anno-un anno e mezzo di relativa tranquillità per guardarsi meglio intorno. Si fanno molti nomi ma di concreto c’è poco, e non è detto che le voci ricorrenti sui “pour parler” con la Saic - la più importante società automobilistica cinese, di Shangai, si trasformino in fatti. Così come resta astratto il progetto - una volta tirata fuori la Ferrari perché possa essere collocata in borsa - che riguarda il cosiddetto polo sportivo, Alfa Romeo più Maserati. Il nuovo capo della ex casa del biscione, Karl Heins Kalbfel forte di una lunga esperienza nel settore e in Bmw, ha già i suoi problemi a ricollocare il marchio Alfa, prima di porsi il problema non da poco del rapporto con il marchio del tridente. In conclusione, il divorzio con la General Motors non ha risolto i problemi della Fiat, semmai li ha messi in evidenza. La partita comincia adesso. E da subito i sindacati dei metalmeccanici intendono giocarla in prima persona. La scorsa settimana, per la prima volta, allo sciopero generale del gruppo Fiat e di tutta la componentistica dell’auto si è affiancata una grande manifestazione a Roma promossa unitariamente da Fim, Fiom e Uilm. A Roma e non più a Torino, come in passato, perché la crisi della più grande industria privata italiana è un problema politico nazionale, la cui soluzione passa attraverso l’apertura di un tavolo a tre – azienda, sindacati e governo – e l’ingresso dello stato nel capitale del Lingotto.

Pubblicato il

18.03.2005 04:00
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