I diritti e la dignità del personale non sono in vendita

Ecco perché Unia Ticino ha lanciato il referendum contro la legge approvata dal Gran Consiglio. Scaricate e firmate il formulario

Come previsto il Gran Consiglio ticinese ha approvato lo scorso 23 marzo la nuova legge sugli orari di apertura dei negozi, decidendo un po’ a sorpresa (ma non più di tanto, essendo imminenti le elezioni politiche) di vincolarne l’entrata in vigore all’adozione di un Contratto collettivo di lavoro (Ccl) di obbligatorietà generale nel ramo del commercio al dettaglio. Una decisione che, oltre ad essere incompatibile con il diritto federale (come risulta da una perizia giuridica voluta dallo stesso parlamento), non ha cambiato di una virgola la posizione del sindacato Unia che ancora una volta si batterà con determinazione contro l’ennesimo tentativo di estendere gli orari di apertura dei negozi e dunque di peggiorare ulteriormente le condizioni di lavoro del personale della vendita.

 

La raccolta delle 7.000 firme necessarie alla riuscita del referendum è già iniziata e i primi segnali sono incoraggianti: «Da una settimana siamo presenti quotidianamente sui luoghi di lavoro e con delle bancarelle in varie località del cantone e la percezione è che i lavoratori e i cittadini siano ben coscienti della posta in gioco e sappiano ben distinguere tra realtà e propaganda», afferma il segretario regionale di Unia Enrico Borelli, che raggiungiamo al telefono martedì sera proprio mentre è impegnato nella raccolta di firme in un quartiere di Lugano.


La decisione del parlamento ticinese di vincolare l’entrata in vigore della nuova legge sugli orari dei negozi alla sottoscrizione di un Ccl, che peraltro rappresenta una vecchia rivendicazione del sindacato, è allora solo propaganda?
La maggioranza che ha adottato questa norma è figlia di una somma d’interessi di tipo partitico: il Ppd ha voluto evitare una spaccatura con la sua componente cristiano-sociale, la Lega non ha voluto inimicarsi parte della sua base (che è fatta anche di venditrici) e il Ps – che sostiene il referendum, ndr – ha, immagino, cercato di guadagnare tempo. Di fatto però la questione del Ccl, al di là delle problematiche giuridiche, è priva d’oggetto. Anche solo per il fatto che per sottoscrivere un contratto è necessaria la volontà di due parti, che non c’è: sono vent’anni che si prova ad avanzare su questo terreno, ma tutti i tentativi sono naufragati di fronte all’opposizione di natura meramente ideologica del padronato. I commenti dei vertici della Disti – l’associazione mantello della grande distribuzione, ndr – alla decisione del Gran Consiglio ne sono del resto l’ennesima dimostrazione, visto che si sono detti disponibili a sottoscrivere un Ccl ma non a dotarsi degli strumenti per verificarne l’attuazione. E poi ci sono le divisioni all’interno del padronato, in particolare tra i piccoli commercianti e la grande distribuzione e persino all’interno di quest’ultima. Vi è infine un aspetto fondamentale: è chiaro che Unia è interessata a discutere di contratti collettivi che possano migliorare le tutele del personale e combattere le distorsioni del mercato del lavoro, ma questi non possono in nessun caso essere concepiti come merce di scambio per ottenere una modifica del quadro legale sull’apertura dei negozi e dunque un peggioramento delle condizioni generali di lavoro. Oltretutto in un settore dove la situazione è già fortemente fuori controllo e il personale sempre più sotto pressione, sia per tutta quella serie di decisioni che sono state prese o che si stanno discutendo a livello federale nell’ambito della deregolamentazione del tempo di lavoro sia per l’aumento del carico di stress e delle esigenze di produttività imposte dal padronato.

 

Il personale della vendita rimane indifferente rispetto all’ipotesi di ottenere un Ccl di obbligatorietà generale?
Il personale è estremamente coeso e compatto nel combattere questa legge, nella misura in cui essa rappresenta un grave ulteriore peggioramento delle condizioni di lavoro. L’adozione di questa clausola non gioca alcun ruolo. Il personale, come ha più volte e in diversi ambiti avuto modo di ribadire, non ne vuole sapere di un’estensione degli orari di apertura dei negozi, che oltretutto non si esaurisce con la legge cantonale ticinese tenuto conto di quanto è in atto a livello federale. Evidentemente non è nemmeno disposto a barattare questo con un contratto.

 

E nell’opinione pubblica in generale qual è a suo avviso la percezione? La promessa di un Ccl (seppur vaga) non mina l’opposizione alla legge?
La posta in gioco è molto chiara agli occhi dei cittadini, che sono perfettamente consapevoli che questa non è una questione che riguarda solo il personale della vendita ma che tocca l’intera società. È infatti evidente a tutti che se non si arresta il processo di liberalizzazione a tappe degli orari di apertura dei negozi che si sta consumando in Svizzera (prima negli aeroporti e nelle stazioni, poi lungo le autostrade e le strade principali, poi nelle zone “turistiche”, poi dappertutto almeno fino alle 8 di sera) nel medio periodo verrebbero colpiti anche altri settori. Perché non avrebbe senso avere i negozi aperti fino alle 20 senza modificare anche le aperture di banche, assicurazioni, uffici comunali, posta, eccetera eccetera.

Pubblicato il

01.04.2015 21:33
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