I pronostici che fanno comodo

Piovono le previsioni economiche. Si mescolano alle improvvisazioni della geopolitica e dei paranoici che governano il mondo, tanto da chiederci se hanno senso. Già un grande economista, J. K. Galbraith, critico per sua natura perché attento alla storia economica, diceva che «la sola funzione della previsione economica è quella di rendere l’astrologia rispettabile».

 

Sembra dargli ora ragione uno studio del Fondo monetario internazionale – le cui previsioni sull’andamento dell’economia mondiale sono comunque diffuse in questi giorni come oracoli – in cui si rileva che gli economisti, su 63 Paesi presi in considerazione negli ultimi venticinque anni, non hanno previsto 148 delle 153 recessioni capitate. Neppure un 3 per cento di affidabilità.


Delle previsioni, ridotte alla percentuale rotante attorno alla cifra del prodotto interno lordo che indica la crescita economica, non ci si può sbarazzare facilmente. Ognuno cercherà nelle cifre, non sempre convergenti, quella che gli servirà per confermare il suo punto di vista; quelle cifre alimentano la fiducia o meno nei mesi che stanno per venire e influenzeranno comunque la realtà proprio nel senso annunciato. Se i pronostici diranno che le cose non si mettono bene, che le incertezze geopolitiche incideranno (il balletto degli accordi commerciali Usa-Cina, l’Iran, la Brexit, Berna-Bruxelles, l’elezione del nuovo inquilino della Casa Bianca ecc.), anche nel nostro piccolo angolo di mondo si approfitterà per dire, ad esempio, che non è proprio il momento di pretendere aumenti salariali. Senza escludere, poi, che attorno alle previsioni fioriscono le “fake data” (l’equivalente delle “fake news”, le notizie false o esagerate) che servono a confondere, indirizzare, speculare, far credere che le assicurazioni sociali stanno sprofondando, che il libero mercato dell’alloggio è una meraviglia, che l’accumulo della ricchezza favorito dagli sgravi fiscali è il modo giusto per farne godere tutti.


Semplificando, si finisce sempre nell’immancabile metafora del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Con singolare contraddizione tra governanti e imprenditori. Da un lato è bene mostrarsi ottimisti, perché ci si autogiustifica e si crea la fiducia, essenziale per investire e crescere. D’altro lato è pure bene nutrire qualche incertezza (sulla crescita, sull’occupazione, sul commercio internazionale, sui costi, sulla competitività), togliendo spazio a rivendicazioni, pretese di redistribuzione o di maggior socialità, interventi regolatori dello Stato, che guasterebbero il meccanismo del maggior profitto o del maggior valore che deve privilegiare una ben precisa parte, quella del capitale.


Anche con le previsioni, con le loro incertezze e palesi contraddizioni, non ci si interroga comunque mai o poco sul bicchiere stesso. Sul contenente, quindi, più che sul probabile contenuto. Un illustre economista, Alan Stuart Blinder, nel suo best-seller “After the Music Stopped” (Quando il ballo è finito), scrive che i responsabili politici dovrebbero finalmente ammettere che il ciclo: profitto-speculazione-esuberanza-crack-fallimento-panico-depressione, è un tratto costante dell’economia capitalista, che l’autoregolazione del mercato è chimera, che lasciare tutto in mano ai soli attori finanziari conduce sempre al disastro perché la loro attività si avvicina, in modo progressivo, alla truffa. Tesi più volte confermata, ignorata nelle previsioni (come nell’ultima grave crisi). Blinder non dice quanto sia improbabile o quanto debole sia la volontà politica per almeno cominciare a rendersene conto. Qui starebbe la necessaria previsione.

Pubblicato il

16.01.2020 10:23
Silvano Toppi
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