Il bestiario e il salariato

Per il lavoratore salariato non c’è mai un buon momento. Se c’è crescita economica, si goda il lavoro, si accontenti, non pretenda, altrimenti mette a repentaglio produttività, competitività, produzione, esportazione, occupazione. Se c’è aria di incertezza o di stagnazione, a maggior ragione è meglio che si rintani, comprensivo, ceda su salario e orario di lavoro.


Dagli Stati Uniti, alla Cina, passando per la provinciale Svizzera, chi comanda e se ne intende, si rifà al bestiario. I termini che vanno per la maggiore, quasi tutti dovessero capire, sono infatti quelli di  “black swan” o “grey rhino”. In lingua nostrana: “cigno nero” o “rinoceronte grigio”. Che c’entra? Per definizione i “cigni neri” non possono essere previsti, arrivano e non si può fare niente per prepararli. È un atteggiamento che incoraggia il fatalismo, rifiuta la responsabilità, guarda solo al breve termine, si dice.

 

Bisogna quindi sostituire il fatalismo del cigno nero con il pragmatismo del rinoceronte grigio, che non può essere una sorpresa casuale; se arriva, arriva dopo una serie di avvertimenti e di prove visibili e quindi puoi prepararti. Ma ecco la domanda: perché i leader, i decisori, i politici, continuano invece a non affrontare i pericoli evidenti, che arrivano, prima di perdere il controllo? Questione pertinente e utile, suscitata dal bestiario.
I pericoli o i rischi che stanno arrivando o già arrivati sono noti ormai da tempo: inflazione (aumento generalizzato dei prezzi) che, data per morta, si ripresenta preoccupando; minacciosa quarta ondata invernale di contagio pandemico, più per stupidità che per scienza; nuova tensione geopolitica (sull’asse Usa-Cina, con immobilismo euro-elvetico); instabilità finanziaria e monetaria.


I grandi analisti (Wall Street) puntano sull’economia “Goldilocks”: crescita sostenuta ma inflazione moderata, attorno al 2 per cento, quasi raggiunta in Svizzera (nota: si rifanno alla storiella della bambina dai capelli d’oro che, capitata nella casa di tre orsi, trova tre ciotole di zuppa; alla ciotola grande e troppo calda, a quella media troppo salata, preferisce  la più piccola perché non salata, né troppo calda né troppo fredda). Altri (come il Nobel Roubini, quello che, solo, aveva previsto la crisi del 2008) temono il rischio surriscaldamento, con l’inflazione che si impenna, il potere d’acquisto che precipita. E sarebbe poi stagflazione (la crescita quasi stagnante unita a inflazione elevata). E qui tutto dipenderà dalle mosse delle banche centrali: dalla Fed americana che già si è mossa, alla Bce europea, alla Banca Nazionale svizzera, che si trovano tra l’incudine e il martello (continuare con la politica del credito e dell’indebitamento facili, per sostenere l’economia e finanza, oppure restringere i cordoni della borsa, ma con i tassi di interesse che schizzeranno verso l’alto generando sconquassi?).


C’è però un discorso che nelle analisi economiche-finanziarie di questi giorni, di fronte a tanta incertezza, si sovrappone e fa sfilare una legge perversa. Che dice: se si vuol dare accesso a un reddito stabile e durevole, una crescita moderata, si deve contare sulla produttività del lavoro (più produzione per unità di lavoro) e sull’inflazione contrastata dei salari (o sull’aumento dei salari). Quanto a dire, che tutto può crescere, ma non i salari. Sono i soli rinoceronti grigi che si vedono arrivare. Se c’è quindi una responsabilità da mettere in gioco è quella del lavoratore-salariato. Come dovevasi dimostrare.

Pubblicato il

07.10.2021 09:35
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