L'amianto e i suoi morti

Per oltre vent’anni Angelo Baroni ha lavorato alla ditta Valmoesa di San Vittore occupandosi in particolare della manutenzione delle attrezzature e dei forni. Nell’estate del 2001 gli viene diagnosticato un tumore alla pleura, o mesotelioma, risultato dell’esposizione all’amianto con cui erano rivestiti i forni che riparava. Angelo Baroni muore il 19 dicembre 2002. Dopo una prima inchiesta sulle bonifiche illegali in Ticino (area, n. 19, 9 maggio 2003), area torna ad occuparsi dell’amianto con una serie di articoli sulle persone esposte nella Svizzera italiana alle polveri del minerale dai mille usi. Il dossier propone innanzitutto la testimonianza dei famigliari di Angelo Baroni, una fra le tante vittime anonime dell’amianto il cui numero è destinato a crescere nei prossimi anni. Il dossier si completa con un’indagine sulle morti per mesotelioma alle Officine Ffs di Bellinzona, con un articolo sull’incidenza del tumore alla pleura in Ticino e con una presentazione di due associazioni che in Svizzera tedesca e romanda a fatica lottano per riscattare dall’anonimato il dramma delle persone esposte alle polveri di amianto. Angelo Baroni, operaio per oltre vent’anni alle dipendenze della Valmoesa di San Vittore, è morto il 19 dicembre 2002. Al termine del funerale un ex direttore della ditta mesolcinese si avvicina a sua moglie Elsa: «Di cos’è morto suo marito signora?», chiede. «Di un tumore da amianto», risponde la vedova. «Ma non è possibile. Quando abbiamo saputo della sua pericolosità abbiamo tolto tutto l’amianto», ribatte l’uomo. Eppure è possibile. Sebbene sia stato bandito in tutte le sue forme dalla fine del ’94, l’amianto ancor oggi uccide. E di amianto si continuerà a morire anche nei prossimi anni, a distanza di decenni dall’inalazione delle fibre che – annidatesi negli alveoli dei polmoni e mai smaltite – favoriscono l’insorgere di un mesotelioma, o tumore alla pleura. Il mesotelioma non ha perdonato Angelo Baroni. E a quanto pare nemmeno un suo collega della Valmoesa, anche lui «morto di amianto» qualche anno fa, ricorda Elsa Baroni. Suo marito era nato il 2 aprile 1936 a Pallanza, in provincia di Novara. A metà degli anni ’60 comincia a lavorare per conto di una ditta italiana che esegue dei lavori alla Valmoesa di San Vittore, acciaieria che nel 1968 – due anni prima di specializzarsi nella produzione di silicio ferroso – si associa alla Monteforno di Bodio. Per qualche anno Angelo Baroni fa avanti e indietro fra la Mesolcina e il suo paese, poi si stabilisce a San Vittore. Con il passare degli anni assume maggiori responsabilità e diventa capo-operaio. Fino alla chiusura della Valmoesa nel novembre 1987 si occupa della manutenzione delle attrezzature e in particolare dell’altoforno rivestito di amianto per evitare la propagazione del calore e gli incendi. «Quante volte mi sono svegliata la notte quando chiamavano mio marito perché il forno si era inceppato», racconta la vedova. Con i suoi colleghi, Angelo Baroni entrava nei forni soprattutto per eseguire lavori di riparazione della struttura interna in muratura – rivestita in amianto – dell’altoforno. Operazioni per anni svolte a quanto pare «senza mascherine», spiegano le figlie Irene e Stefania sedute nella cucina della casa di famiglia a Leggia. Il loro padre è fra le 79 persone licenziate nel novembre del 1987 quando alla Valmoesa cessa la produzione di silicio ferroso. Per alcuni anni lavora ancora in due acciaierie del Moesano, poi passa al beneficio dell’assicurazione invalidità per un problema alla schiena. È nell’estate del 2001 – qualche mese dopo essere andato in pensione – che comincia a lamentarsi per un persistente fastidio nella zona dei bronchi. All’inizio è convinto si tratti di uno strappo muscolare accusato dopo aver giocato con il cane. Ma una prima radiografia effettuata dal medico di famiglia indica una macchia nei polmoni. Intanto, la tosse secca che fino ad allora ogni tanto gli dava tregua si fa pressoché continua. La diagnosi giunge qualche settimana dopo all’Ospedale San Giovanni di Bellinzona dove gli vengono praticate una broncoscopia e una biopsia: si tratta di un mesotelioma. È l’ottobre del 2001. Angelo Baroni e la figlia Irene che lo accompagna lasciano l’ospedale rassicurati dalle parole del medico che esclude sia l’intervento chirurgico sia una chemioterapia. Nei mesi seguenti l’ex operaio della Valmoesa continua a soffrire per la tosse insistente che non lo lascia dormire e che gli provoca spesso una sensazione di soffocamento. Intanto, perde poco a poco l’appetito, cala di peso in modo vistoso, comincia ad accusare sfinitezza e forti dolori di testa. Nel maggio 2002 una Tac rivela un drastico peggioramento della sua salute: il tumore alla pleura è avanzato. Negli ultimi mesi di vita Angelo Baroni fa dentro e fuori da diversi ospedali della regione, un via vai interrotto ogni tanto da qualche settimana trascorsa nella sua casa di Leggia grazie al prodigarsi dei famigliari. I dolori non sono assillanti, ma fa una polmonite a fine agosto, contrae il diabete e comincia a comportarsi in modo inusuale. Negli ultimi mesi perde il sonno e i momenti di lucidità si fanno vieppiù rari. «All’inizio attribuivamo questi stati confusionali alle pastiglie per la polmonite, anche perché l’oncologo aveva escluso il mesotelioma come loro causa. Però una dottoressa poi ci disse che il tumore poteva provocare questi disturbi. Tutti ci dicevano cose diverse», spiega Elsa Baroni. Suo marito è ricoverato ai primi di dicembre alla clinica San Rocco di Grono. Angelo Baroni muore nella notte fra il 18 e il 19 del tumore provocato dall’inalazione delle sottili fibre di amianto che dopo lustri di latenza hanno scatenato il loro effetto. Le vittime anonime delle officine Ffs «Quanti malati di cancro alle Officine Ffs di Bellinzona?» titolava nel luglio 1990 il periodico Rosso sottolineando che «anche un solo caso di mesotelioma (…) non è da sottacere e sarebbe da denunciare come evidenza epidemiologica dell’eccesso di mesoteliomi tra ferrovieri esposti ad amianto». A tredici anni di distanza – e senza che nessuno nel frattempo abbia sciolto l’interrogativo – è il dottor Franco Quadri ad abbozzare una risposta. Il caposervizio di pneumologia all’Ospedale San Giovanni di Bellinzona parla di quattro ex lavoratori delle officine Ffs della capitale (e di un macchinista) morti a cavallo fra gli anni ’80 e ’90 per un tumore alla pleura contratto a seguito dell’esposizione a polveri da amianto. I quattro ex operai rappresentano all’incirca il 40 per cento dei casi di mesotelioma che Franco Quadri ha diagnosticato nei suoi 17 anni di servizio all’Ospedale San Giovanni, dove ha potuto seguire una buona parte delle persone che hanno contratto questa rara forma di tumore nel Sopraceneri (vedasi articolo nella pagina accanto). «Si tratta di uomini che lavoravano quali sellai (addetti ai rivestimenti dei sedili, ndr) e pittori nel settore manutenzione carrozze delle officine Ffs di Bellinzona a cavallo fra gli anni ’50 e gli anni ’60», spiega il pneumologo. Gli ex lavoratori delle officine – deceduti fra i 60 e i 75 anni, l’ultimo all’inizio dello scorso decennio – si conoscevano tutti. Nessuno di loro manipolava amianto, ma tutti lavoravano a stretto contatto con gli addetti di un’impresa della Svizzera tedesca che a intervalli regolari veniva chiamata per rivestire i soffitti delle carrozze passeggeri con amianto spruzzato, usato quale protezione anti-incendio. Franco Quadri ha conosciuto anche un lavoratore di questa ditta, nel frattempo deceduto dopo aver contratto un’asbestosi: «Una volta mi disse che tutti i suoi colleghi erano morti di malattie legate all’amianto (asbestosi o mesotelioma)», ricorda il medico. La problematica dell’amianto alle Officine Ffs di Bellinzona è stata avvolta nell’ignoranza per decenni. L’applicazione dell’ amianto spruzzato responsabile della morte per mesotelioma dei quattro ex operai cessa nel 1964, ma fino alla seconda metà degli anni ’80 a Bellinzona si riparano carrozze imbottite di amianto (nei soffitti, nelle pareti, nei pavimenti, sotto i sedili) senza nessuna precauzione: «Bagnavamo e grattavamo l’amianto come se niente fosse, senza protezioni» ricorda Vito Burgener, responsabile del settore manutenzione carrozze dal 1964 al 2002. «Nelle riparazioni ordinarie – spiega Alfredo Keller, direttore delle Officine Ffs di Bellinzona dal 1973 al 1991 – in genere non si toccavano le parti in amianto e quindi i rischi di dispersione della polvere erano minori. Il problema era più grave nelle manutenzioni straordinarie, quando si procedeva allo svuotamento. Lì c’era molta polvere nell’aria». I rischi legati all’utilizzo dell’amianto avevano sollevato un polverone alle Officine Ffs di Bellinzona nella seconda metà degli anni ’80, poi «man mano che le carrozze venivano risanate la cosa è tornata ad essere sommersa» dice ad area il presidente della commissione del personale Gianni Frizzo che precisa comunque che un centinaio di operai ed ex operai esposti all’amianto sono sottoposti a sorveglianza medica regolare. Sull’onda delle mobilitazioni che avevano rotto il silenzio sulla pericolosità dell’amianto, nel 1986 le Officine Ffs di Bellinzona appaltano a una ditta di Lugano il risanamento (o decoibentazione) dei vagoni. L’impresa utilizza una sorta di aspirapolvere senza preoccuparsi che l’aria con le fibre venga eliminata all’esterno dopo il filtraggio. «Era un disastro – racconta Vito Burgener –. Gli operai lavoravano con pochissime protezioni: uscivano dai vagoni e scuotevano il pullover per liberarsi della polvere». «Mi è capitato di entrare in certe carrozze e di ritrovarmi in un polverone. Il problema è che poi i nostri operai dovevano rimontare i vagoni lavorando con un’elevata concentrazione di fibre nell’aria», spiega dal canto suo Alfredo Keller, precoce impulsore dell’eliminazione dell’amianto in un’epoca «di ignoranza» in cui «si procedeva come nel far west, imparando poco a poco attraverso l’esperienza sul terreno». Dopo la prima – fallimentare – esperienza di decoibentazione, le Officine Ffs assumono loro stesse il compito di togliere l’amianto dalle carrozze. Equipaggiati con le attrezzature necessarie (tute e mascherine) e dotati di una carrozza stagna (con spogliatoi, doccia, anticamera e sistema di ventilazione) approntata per evitare qualsiasi contatto con le polveri di amianto, gli operai delle officine vanno avanti tre mesi. Poi, intimoriti, gettano la spugna. Da allora il risanamento delle carrozze è stato affidato alla ditta lucernese Belfor Sa (ex Rag Ag), che dal 1991 al 2001 a Bellinzona ha decoibentato – nel rispetto delle disposizioni di sicurezza nel frattempo elaborate a livello federale – all’incirca 850 carrozze. Dopo anni di risanamenti le Ffs stanno però ancora lottando per sbarazzarsi dell’ingombrante eredità dell’amianto, usato in particolare sottoforma di flocculato e di pannelli fino alla fine degli anni ’70 come isolante delle carrozze. Secondo la direzione delle Ffs i vagoni passeggeri contenenti amianto oggi in servizio sulle tratte regionali sono 222 (per l’attivista François Iselin sarebbero invece «molti di più») e l’ultima carrozza di questo tipo dovrebbe essere ritirata entro il 2008. La scomparsa di questi vagoni non cancellerà però il problema. Le Ffs sono infatti alla ricerca di elementi fabbricati con il minerale dai mille usi nei motori di vecchie locomotive e in alcuni carri merci. Inoltre, l’eredità dell’amianto continuerà a pesare sulle spalle di lavoratori che hanno riparato e soprattutto decoibentato senza le adeguate protezioni le carrozze contenenti il minerale nocivo. Non per nulla l’Associazione di vittime dell’asbesto e parenti di Zugo (vedasi accanto) sta seguendo sei persone malate di asbestosi o mesotelioma che hanno lavorato nelle officine delle Ffs e della Bls Lötschbergbahn. Tredici anni dopo, la domanda iniziale non ha quindi perso di attualità: in futuro «quanti malati di cancro alle Officine Ffs di Bellinzona?». E nelle altre officine? Mesotelioma, Ticino nella media svizzera Forzando la memoria, il dottor Franco Quadri annota su un foglietto le iniziali dei pazienti ai quali ha diagnosticato un mesotelioma negli ultimi 17 anni passati all’Ospedale San Giovanni di Bellinzona. Dalla metà degli anni ’80 il caposervizio di pneumologia del nosocomio bellinzonese ha visto una gran parte dei tumori di questo tipo – rari nella popolazione in generale ma relativamente frequenti fra chi è stato esposto all’amianto – che si sono verificati nel Sopraceneri. «Sono una decina, oltre a 3 o 4 casi di asbestosi. La tragedia è che i primi nel frattempo sono tutti morti», dice. A differenza dell’asbestosi (fibrosi polmonare di per sé non letale ma che determina una propensione al tumore), il mesotelioma perdona solo in qualche caso. La malattia si sviluppa a causa della persistenza delle minuscole fibre di amianto inalate e andate a depositarsi negli alveoli dei polmoni. La relazione fra di essa e l’esposizione all’amianto è provata dalla prima metà degli anni ’60. Il mesotelioma colpisce in genere la pleura, ovvero la membrana che riveste i polmoni. Sono più rari i casi di mesotelioma al peritoneo. I sintomi si manifestano in media fra i 30 e i 40 anni dopo l’esposizione alle fibre di amianto, che può anche essere stata di durata limitata: i medici concordano infatti nell’affermare che non esiste una soglia minima di esposizione al di sotto della quale vi è la sicurezza di non contrarre la malattia. «Il tempo di latenza estremamente lungo rende impossibile in alcuni casi stabilire una relazione chiara fra mesotelioma ed esposizione professionale o meno a polveri di amianto», spiega il dottor Franco Quadri che di casi del genere ne ha visti un paio. Per di più, il mesotelioma non si manifesta con segni precoci, per cui individuare e affrontare la malattia in una fase iniziale del suo decorso è quasi impossibile. Sulla scorta dei dati raccolti dal Registro cantonale dei tumori è impossibile dire che l’incidenza del mesotelioma in Ticino è in aumento. Dal 1996 al 2002 (ma i dati sono consolidati solo per il triennio ’96-’99) l’ente sotto il cappello dell’Istituto cantonale di patologia di Locarno ha registrato 33 casi (21 uomini, 12 donne). Con un’incidenza di 2,03 casi su 100 mila abitanti per gli uomini e di 1,07 per le donne, il Ticino rientra nella media svizzera. Dalle verifiche effettuate dal biologo Fabio Montanaro che ha elaborato i dati non risulta che l’incidenza del mesotelioma in Ticino sia significativamente più alta in comuni dove sono o erano presenti aziende che per anni hanno prodotto o manipolato manufatti contenenti amianto. Un’interpretazione confermata dal dottor Franco Quadri che scarta l’ipotesi di “focolai” in un cantone che ha avuto uno sviluppo industriale limitato e dove non sono mai stati presenti né gli stabilimenti della Eternit né – per esempio – imprese specializzate in isolamenti a base di amianto spruzzato. Tenuto conto del fatto che l’amianto è stato manipolato su larga scala fino agli anni ’80 e che in seguito ci sono stati numerosi risanamenti “artigianali” di edifici contenenti il materiale nocivo (vedasi area, n. 19, 9 maggio 2003), non c’è da attendersi una flessione dell’incidenza di mesotelioma nel nostro cantone nei prossimi anni. Il discorso non vale per il solo Ticino, dove l’Istituto nazionale svizzero di assicurazione contro gli infortuni (Suva) ha riconosciuto dal 1984 al 2001 solo quattro casi – fra asbestosi e mesotelioma – come malattia professionale. A livello svizzero, se quelli di asbestosi sono in calo (circa 5 l’anno), i casi di mesotelioma sono invece in costante aumento dalla metà degli anni ’70: dal 2000, ogni anno sono circa 50 quelli notificati all’ente assicurativo. Nel febbraio del 2002 la Suva scriveva in un comunicato stampa che «nei prossimi anni non ci si deve aspettare un regresso di tali casi» e che, sebbene le patologie legate all’amianto rappresentino solo il 2 per cento circa di tutte le malattie professionali, un terzo circa dei 90 casi mortali imputabili ogni anno a una malattia professionale riconosciuta è dovuto all’amianto. Fra il 1984 e il 2001 la Suva ha registrato 960 casi (con 597 decessi) di malattie legate all’amianto. Tenuto conto che una persona ammalatasi di asbestosi o di mesotelioma le costa in media 350 mila franchi, la Suva stima che nei prossimi dieci anni dovrà versare oltre 200 milioni di franchi in prestazioni assicurative a ex lavoratori e lavoratrici esposti. I dati dell’ente assicurativo riflettono però solo in parte la reale incidenza del mesotelioma nel nostro paese. Una proporzione significativa di chi ha contratto la malattia dopo aver prodotto o manipolato amianto in Svizzera è infatti rientrata in patria. Uno studio pubblicato in gennaio sulla rivista della Società svizzera per la salute pubblica e condotto su ex lavoratori veneti e pugliesi impiegati per anni alla Eternit di Niederurnen giunge alla conclusione che «l’esposizione all’amianto in questa impresa ha già provocato un numero importante di tumori professionali fra gli impiegati, una buona parte dei quali immigrati. Per evitare di sottostimare il rischio e favorire una compensazione, le malattie che colpiscono i lavoratori immigrati tornati al loro paese devono essere valutate». A livello europeo lo studio di riferimento sulla mortalità per tumore pleurico è quello pubblicato nel 1999 nel British Journal of Cancer da un’équipe coordinata da J. Peto. I ricercatori hanno stimato che nei prossimi 35 anni in Europa occidentale si avranno 250 mila decessi per mesotelioma legati alla produzione e all’esposizione all’amianto. Studi più recenti rafforzano le conclusioni raggiunte da J. Peto. In Gran Bretagna i dati ufficiali fanno stato di un aumento del 300 per cento delle morti per mesotelioma dal 1978 (393 decessi) al 1998 (1527). Il picco è previsto attorno al 2010. In Francia, uno studio del luglio 2000 prevede 44 mila decessi per mesotelioma fra il 1997 e il 2050, mentre un gruppo di ricercatori italiani, svizzeri e spagnoli sono giunti alla conclusione che vivere in un raggio di 2 chilometri da miniere di amianto, da stabilimenti in cui si produceva amianto-cemento, materiali tessili e freni a base di amianto o da cantieri navali, comportava una moltiplicazione per 12 del rischio di sviluppare un mesotelioma pleurico.

Pubblicato il

20.06.2003 01:30
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