La moralità e i paradossi della fiscalità

Il fisco ha una sua ambiguità morale. Da un lato dovrebbe permettere una più equa ridistribuzione della ricchezza. Se si comporta diversamente, favorendo in un modo o nell’altro gli alti redditi, i guadagni di capitale, i possidenti, diventa doppiamente immorale: perché rinuncia alla giustizia fiscale e perché priva di mezzi l’ente pubblico e rende difficile la realizzazione del bene comune. D’altro lato il fisco pretende di incarnare qualche forma di morale, soprattutto attraverso la tassazione indiretta, con l’obiettivo di promuovere modelli di buona vita (ad esempio contro l’alcolismo, contro il tabagismo) o di giusto comportamento (ad esempio rispetto delle norme stradali).


Che la crescita delle diseguaglianze per politiche fiscali ingiuste o per la facile evasione fiscale sia uno dei problemi economici attualmente più gravi è ormai lamentela mondiale corrente. Se la ricchezza si concentra, se le disparità di reddito aumentano, se la competitività o la produttività o gli alti profitti si ottengono solo martoriando la massa salariale, si mette a repentaglio la domanda interna (i consumi, fattore portante del pil) e si fragilizza pure la coesione sociale (e si nutre la destra).


C’è però un’altra assurda discrepanza che va posta in luce. Mentre si evita di agire come si dovrebbe secondo giustizia fiscale (ognuno sia tassato progressivamente secondo le sue capacità finanziarie sul proprio reddito, i patrimoni, i profitti, i guadagni di capitale; sia il fisco pronto e severo contro gli evasori, non limitandosi a graziarli con amnistie fiscali), ci si rifugia sempre più per necessità di fare cassa in varie scappatoie.
C’è un esempio significativo che sta preoccupando alcune casse comunali. Per moralizzare il vizio del gioco d’azzardo si è creduto bene di ricorrere a una elevata imposizione fiscale, facendone una delle strutture portanti dei bilanci pubblici. I quali, oggi, ne lamentano il cedimento, o per malversazioni gestionali o per calo di clienti. Da un lato si è quindi costretti a contare sul fatto che un certo numero di individui (si pensa ai transfrontalieri!) ritornino ancora allo stile di vita moralmente stigmatizzato ma fiscalmente sfruttato. D’altro lato ci si accorge che i bilanci pubblici, sempre ritenuti dai politici “azzardati”, puntano sull’azzardo.


Un altro paradosso analogo caratterizza in misura crescente una importante voce degli introiti dello stato e dei comuni: le sanzioni amministrative o multe. Anche in questo caso si intende sanzionare comportamenti ritenuti illegali o trasgressivi (vedi velocità, alcolemia, posteggi, prostituzione eccetera). Se si riuscisse nell’intento morale-civile, si rischierebbe di cancellare una entrata che rimane importante. Tanto da augurarsi, assurdamente, che si mantenga un livello piuttosto elevato di illegalità per sanare le finanze. Qui si dimentica comunque la contraddizione tra l’eguaglianza formale di fronte alla legge (e cioè pari infrazione, pari sanzione) e la diseguaglianza che la differenza dei redditi comporta quanto al peso di una multa nella vita e nella condizione del singolo.
Tutte queste situazioni sanno di fuga per la tangente. Fuga in due tempi: dapprima, dal principio sacrosanto dell’imposizione fiscale e cioè che ognuno versi in proporzione della sua ricchezza; poi, dalla scarsa volontà di prendere in considerazione le diseguaglianze e le spropositate asimmetrie della distribuzione della ricchezza.

Pubblicato il

08.10.2015 00:32
Silvano Toppi
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