La rabbia di Schmidheiny: provo compassione per gli italiani

In concomitanza con l'inizio di un nuovo processo, l'imputato si sfoga

«Non ho intenzione di vedere una prigione italiana dall’interno. Ritengo che alla fine il mio comportamento sarà giudicato correttamente e un giorno verrò assolto». È con questi sentimenti che Stephan Schmidheiny affronta il nuovo processo per la strage dell’Eternit in Italia apertosi il 14 gennaio davanti al giudice dell’udienza preliminare (Gup) di Vercelli, chiamato a decidere sulla richiesta di un suo rinvio a giudizio per l’omicidio volontario di 392 persone. (una settantina di ex operai e gli altri semplici cittadini), morte a causa dell’amianto disperso negli ambienti di lavoro e di vita dalla tristemente nota fabbrica di Casale Monferrato che il miliardario svizzero, come massimo dirigente della multinazionale del cemento amianto Eternit, ha controllato tra la metà degli anni Settanta e la metà degli Ottanta. Un’accusa pesante ma che sembra non spaventare il miliardario svizzero, stando alle dichiarazioni da lui rilasciate in una recente intervista alla Nzz am Sonntag, in cui usa toni particolarmente sprezzanti nei confronti dell’Italia e della giustizia italiana. Anche grazie a un’evidente complicità dei giornalisti che gli pongono le domande.


“Lei ha abbandonato gli affari con l’amianto, ma a decenni di distanza viene ancora perseguitato dalla giustizia italiana...”, osservano gli intervistatori. E lui: «Sì è pazzesco: abbiamo fatto tutto il possibile e quanto era ragionevolmente esigibile secondo lo stato delle conoscenze di allora per risolvere il problema dell’amianto. Ma 40 anni dopo si viene accusati di omicidi di massa e perseguitati per decenni. Così è la vita. Cosa posso fare?».


“Oggi lo dice in modo rilassato, ma quanto le sono pesate le accuse lanciate contro di lei in Italia 18 anni fa?”, rilanciano gli intervistatori. «All’inizio pensavamo che si trattasse di diritto, di fatti, di giustizia, ma nel corso del tempo questa impressione è svanita. Ciò mi è pesato molto e per molto tempo. Ma poi ho capito che mi sarei dovuto occupare della mia igiene mentale per non lasciarmi abbattere da tutti questi incredibili attacchi». Schmidheiny spiega anche come lo ha fatto: «Tutto ha avuto inizio con esercizi di meditazione quotidiani. Mi sono reso conto di provare dentro di me un odio per gli italiani e che io sono il solo a soffrire per questo. Ho lavorato in modo mirato sulla situazione. E quando oggi penso all’Italia provo solo compassione per tutte le persone buone e oneste che sono costrette a vivere in questo Stato fallito», afferma senza pudore.
Nell’intervista Schmidheiny si sofferma anche sul suo approdo (chiamato dal padre) ai vertici dell’impresa di famiglia, a metà degli anni Settanta a soli 27 anni, in un momento in cui la Eternit doveva iniziare a fare i conti con il processo di messa al bando dell’amianto: «Ero troppo giovane, impreparato. Ho dovuto imparare tutto molto in fretta», afferma. “Riusciva a dormire bene in quel periodo?”, domandano dunque gli intervistatori. «Sì, per la stanchezza – risponde Schmidheiny –. A volte mi stupisco di aver sopravvissuto a quel periodo, con tutti i problemi legati all’amianto, alle ostilità. Sono una persona piuttosto sensibile. Lavorammo alla ricerca di fibre sostitutive, investimmo ancora di più in misure di sicurezza nelle fabbriche e cercammo di sviluppare nuovi segmenti di attività. In Svizzera Eternit aveva 1.200 collaboratori ed abbiamo approntato un programma per mantenere gli impieghi. Ci siamo riusciti ampiamente».


La questione dei presunti investimenti per limitare i danni alla salute dei lavoratori esposti alle polveri di amianto è anche un elemento centrale della tesi difensiva dei legali di Schmidheiny nel nuovo processo (così come fu in quello di Torino, da cui si salvò solo grazie alla prescrizione) iniziatosi martedì a Vercelli. Un momento dall’alto valore simbolico che riaccende speranze di giustizia, a cui hanno presenziato un centinaio di persone tra ex operai, malati e militanti dell’Associazione dei familiari delle vittime (Afeva) di Casale Monferrato, rappresentanti dei sindacati e dei movimenti ambientalisti, che hanno dato vita a un breve sit-in davanti al Palazzo di giustizia.

 

I quattro processi
Il procedimento rappresenta uno dei quattro tronconi del processo avviato nel 2015 a Torino ma che nel 2016, in seguito alle decisioni del Gup del capoluogo piemontese, è stato spacchettato. Le sedi giudiziarie chiamate ad occuparsene, per competenza territoriale, sono così diventate quattro: Torino, dove Schmidheiny lo scorso 23 maggio è stato condannato a quattro anni di carcere per omicidio colposo aggravato per la morte da esposizione all’amianto di un ex dipendente della Eternit di Cavagnolo e di una cittadina che viveva nelle vicinanze della fabbrica; Napoli, dove Schmidheiny dal 12 aprile scorso è sotto processo davanti alla Corte di Assise e dove il reato ipotizzato è quello di omicidio volontario, in relazione alla morte di 6 operai dello stabilimento di Bagnoli e di due loro familiari; Reggio Emilia dove si attendono ancora le prime mosse della Procura, che si occupa delle vittime della sede Eternit di Rubiera; e infine, appunto, Vercelli, competente per il filone più importante dell’Eternit bis, perché riguarda la tragedia di Casale Monferrato, la “città martire”, con i suoi oltre 2.000 morti, un nuovo caso di mesotelioma e un funerale alla settimana.
Il giudice dell’udienza preliminare di Vercelli Fabrizio Filice dovrà stabilire, verosimilmente verso fine gennaio, se Schmidheiny va rinviato a giudizio e con quale capo d’imputazione. Se accogliesse la richiesta di rinvio a giudizio per omicidio volontario formulata dai pubblici ministeri Roberta Brera, Francesco Alvino e Gianfranco Colace, il processo sarà trasferito a Novara per essere celebrato davanti alla Corte d’Assise. Se, invece, il reato fosse derubricato in omicidio colposo il processo si celebrerà davanti al giudice monocratico di Vercelli.

Pubblicato il

16.01.2020 14:32
Claudio Carrer

Schmidheiny il perseguitato immaginario

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