Pensioni, i sette vizi capitali

La posta in gioco della votazione di questo fine settimana sulla revisione della Legge sulla previdenza professionale (Lpp) va oltre la difesa delle rendite dei futuri pensionati. È infatti chiaro che il progetto fa parte di un'offensiva molto più vasta che mira ridurre la spesa sociale in generale e che comprende pure l'obiettivo di portare l'età Avs a 67 o addirittura a 68 anni (come auspicato dall'ex consigliere federale Pascal Couchepin già nel 2003) e i ripetuti attacchi alle assicurazioni invalidità e contro la disoccupazione. Per fermare questo processo sarebbe necessario «un cambiamento dei rapporti di forza tra i salariati e gli ambienti capitalisti», ma una bocciatura della riduzione del tasso minimo di conversione per gli averi del secondo pilastro dal 6,8 al 6,4 per cento «porrebbe perlomeno un freno», osserva lo storico Sébastien Guex, professore ordinario presso l'Università di Losanna e fautore di un sistema previdenziale più solido e solidale rispetto a quello attuale.

Quale profondo conoscitore della storia sociale ed economica del nostro paese e con gli occhi puntati oltre il 7 marzo, Guex riafferma infatti l'esigenza di superare, nell'interesse dei lavoratori, l'attuale sistema dei tre pilastri integrando il secondo nel primo, cioè nell'Avs. Un'assicurazione sociale che si regge sul principio della solidarietà tra generazioni e che pertanto rappresenta la «soluzione migliore». Il sistema di capitalizzazione che caratterizza il secondo pilastro è per contro «il peggiore possibile per i salariati» rispettivamente «un grande affare solo per i padroni», afferma Guex, sottolineando come siano i fatti della storia a dimostrarlo.
«La sinistra e i sindacati -spiega- sono sempre stati a favore di un sistema di ripartizione, ma la destra e gli ambienti economici hanno imposto sin dall'inizio un sistema previdenziale che favorisce la capitalizzazione. Esso affonda le sue radici nella legge federale che durante il primo conflitto mondiale (nel 1916), alla luce degli utili eccezionali conseguiti all'epoca dalle imprese svizzere, introdusse un'imposta sui profitti di guerra. Imposta da cui erano esenti quelle imprese che impiegavano parte dei loro utili per costituire una cassa pensioni. La clausola fu subito sfruttata al massimo e le casse pensioni spuntarono come funghi: nel 1920, quando l'imposta fu soppressa, praticamente tutte le medie e grandi imprese svizzere ne avevano creata una».
Si può allora affermare che in Svizzera le casse pensioni furono create per consentire alle imprese di sfuggire al fisco?
In principio questa fu la ragione principale, ma presto le casse pensioni si rivelarono uno strumento eccezionale da tutti i punti di vista per il padronato svizzero. Furono innanzitutto utilizzate per legare i salariati all'impresa. Non esistendo all'epoca il cosiddetto "libero passaggio" (introdotto solo negli anni Settanta), il lavoratore che lasciava un'azienda con una cassa pensione perdeva tutto o buona parte del capitale versato e dunque non se ne andava. Per mezzo secolo i salariati svizzeri di migliaia di aziende rimasero di fatto inchiodati al loro posto di lavoro. A questo proposito è curioso rilevare come i liberali che oggi sono per un mercato del lavoro flessibile, all'epoca misero in piedi un sistema assolutamente rigido e non libero.

Con quali conseguenze per i salariati e quali vantaggi per il padronato?
Il sistema messo in piedi contribuì tra il 1945 e la metà degli anni Settanta a mantenere un mercato del lavoro completamente inaridito e dunque enormemente vantaggioso per il padronato svizzero che così si assicurò la libertà di moderare gli aumenti salariali senza perdere la manodopera qualificata che avrebbe potuto trovare facilmente un'altra occupazione. L'industria delle macchine per esempio subiva la concorrenza delle Ferrovie federali svizzere, che offrivano salari e condizioni di lavoro migliori. Ma grazie alle casse pensioni le varie Brown Boveri, Georg Fischer e Sulzer riuscirono a tenersi il personale che necessitavano.

Con la creazione delle casse pensioni le imprese svizzere hanno dunque risparmiato imposte, si sono garantite in tempi difficili la fedeltà dei loro dipendenti e hanno potuto mantenere bassi i salari. E in seguito?
«I padroni d'impresa -risponde Sébastien Guex- hanno saputo approfittare delle casse pensioni in ogni epoca e su più fronti». I vantaggi che ne hanno tratto e che ne continuano a trarre si possono così riassumere:

1° Un mezzo per tenere "sotto controllo" le pretese salariali
Con le casse pensioni i padroni d'impresa possono fare importanti operazioni finanziarie, come successo per esempio soprattutto negli anni Sessanta e Settanta con gli investimenti immobiliari. Investimenti tesi a creare alloggi per i propri dipendenti ma anche a rafforzare il controllo su di essi. Il meccanismo è semplice: il padrone costruisce immobili a buon mercato, visto che utilizza i capitali risparmiati dai lavoratori e che questi vengono remunerati con un tasso d'interesse inferiore a quello che chiederebbe una banca per un credito ipotecario. In seguito affitta gli appartamenti a pigione moderata agli operai, i quali si illudono di risparmiare (ma in realtà quello che guadagnano sull'affitto lo perdono da un'altra parte visto che i loro capitali non vengono remunerati in modo corretto) e di conseguenza tendono a ridurre o a moderare le loro pretese salariali.

2°: Una via per far passare i valori del capitalismo nella classe operaia
La gestione della casse pensioni è un aspetto molto importante dal punto di vista sociologico per capire le caratteristiche del movimento operaio in Svizzera. Affidandola alle cosiddette commissioni paritetiche, si riescono a integrare nel sistema un certo numero di salariati dell'impresa ma senza dare loro alcun potere, né di gestione né di controllo. I socialdemocratici e i laburisti si illusero che questo modello avrebbe cambiato il capitalismo, ma, al contrario si è rivelato un sistema per far passare i valori capitalisti nella classe operaia. Mi spiego: i lavoratori "integrati", di fronte a una cassa pensione con un capitale di decine o centinaia di milioni di franchi da gestire, sono portati a condividere l'idea di realizzare il massimo degli profitti, ad accettare la speculazione come metodo. Diventa così "normale" affidarne la gestione alle società specializzate (banche e assicurazioni) che investono i soldi dei lavoratori come vogliono e in modi sconosciuti e incomprensibili agli stessi assicurati. La storia della cassa pensioni di Roche (una delle prime che fu fondata in Svizzera) è esemplare in questo senso: già all'inizio degli anni Ottanta, con un patrimonio ormai miliardario, era diventata una potenza finanziaria. Roche decise così di affidarne la gestione alla banca Bz del finanziere Martin Ebner (grande amico del leader storico dell'Udc Christoph Blocher, ndr), il quale impose un modello rivoluzionario copiato dall'Inghilterra: invece di prendersi una commissione fissa pari a una determinata percentuale del patrimonio amministrato  (come usavano fare all'epoca i gestori di casse pensioni), propose e ottenne di far pagare le sue prestazioni in funzione dei risultati conseguiti, cioè in funzione del rendimento del capitale. Ebner aprì un varco agli investimenti in azioni e di fatto diede inizio alla liberalizzazione nel settore della gestione della casse pensioni in Svizzera. Un'operazione geniale perché realizzata con il "consenso" dei lavoratori, che ci mettono i soldi e dunque accettano la logica del sistema di capitalizzazione, secondo cui bisogna investire in modo da ottenere il massimo profitto. In un simile contesto i salariati di Roche, per esempio, per far fruttare al massimo i miliardi della loro cassa pensioni potrebbero essere tentati di investire in azioni Roche e, per farne aumentare il valore, di accettare una riduzione salariale con l'illusione di guadagnarci comunque attraverso la cassa pensioni. Si tratta di un esempio assurdo ma che rende bene l'idea di quanto perverso sia il sistema e di come le casse pensioni siano uno strumento di ricatto nei confronti dei salariati (che oggi ormai rappresentano una potenza finanziaria a livello internazionale), rispettivamente un mezzo per integrare le regole peggiori del sistema capitalista nella loro testa e nella loro pratica. E questo è evidentemente drammatico.

3°: Una fonte di capitali a buon mercato
Come riconosciuto da alcuni economisti liberali onesti, il secondo pilastro non è un'assicurazione sociale. Esso si basa su un sistema di risparmio forzato, in cui i salariati ricevono ciò che loro stessi hanno versato durante la vita attiva. Il contributo pagato dal datore di lavoro va infatti considerato parte dei costi salariali: il padrone,  invece di pagare al dipendente per esempio 3.500 franchi di salario glie ne versa solo 3.300 e gli altri 200 li gira alla cassa pensione. Riuscendo a imporre questo modello previdenziale, la borghesia svizzera (a differenza di quanto avvenuto nei paesi vicini dove vigono altri sistemi e le casse pensioni sono molto meno sviluppate) si è assicurata una massa enorme di capitali (centinaia di miliardi derivanti dai risparmi forzati dei lavoratori) a buon mercato. Una situazione che tra l'altro contribuisce a mantenere in Svizzera tassi d'interesse inferiori dell'1,5-2 per cento rispetto a quelli di altri paesi, il che rappresenta (ancora una volta) un vantaggio enorme per le imprese svizzere.

Le ripetute riduzioni del tasso minimo d'interesse sugli averi del secondo pilastro e il tentativo di abbassare per la seconda volta in pochi anni l'aliquota di conversione non rappresentano fondamentalmente gesti di sfiducia nei confronti del modello della capitalizzazione?
Il padronato e il Consiglio federale per decenni hanno sostenuto che questo sistema è migliore di quello dell'Avs, ma evidentemente non è così, visto che il successo degli investimenti è legato in gran parte al valore, molto fluttuante, delle azioni. Dopo i fasti degli anni Sessanta, Settanta e in parte Ottanta, la borsa ha cominciato ad accusare terribili cadute e i salariati già stanno pagando di persona con perdite fino al cinquanta per cento del valore del capitale di vecchiaia. I lavoratori cominciano a rendersi conto di quanti rischi comporti il sistema di capitalizzazione. Rischi di cui sono coscienti anche le classi dirigenti: le grandi assicurazioni che oggi difendono la riduzione del tasso di conversione lo fanno per aumentare i loro profitti, ma anche perché non hanno alcuna fiducia nell'evoluzione della borsa nei prossimi decenni. Non sono stupidi: vedono che le crisi finanziarie sono sempre più gravi e frequenti e si rendono conto che il gioco si fa talmente pericoloso da imporre un intervento preventivo, appunto attraverso la riduzione del tasso al 6,4 per cento.

Ci sono a suo avviso nell'attuale contesto politico e sociale le condizioni per attuare un cambiamento di sistema?
Sono abbastanza materialista per ritenere che le idee dominati di una società dipendono in gran parte dalle forze sociali ed economiche dominanti. Oggi in Svizzera abbiamo casse pensioni gigantesche e un apparato gigantesco che le gestisce, il che fa sì che vi siano decine di migliaia di persone che di questo business vivono. Questa situazione e le "infiltrazioni" dei valori capitalisti nella classe operaia hanno contribuito a sviluppare una forza sociale persuasa di mantenere questo sistema. A mio avviso servirebbe un vero "terremoto" per cambiare le cose: negli Stati Uniti la crisi finanziaria ha affondato anche delle casse pensioni ma questo non ha prodotto alcun cambiamento. Temo che anche in Svizzera servirebbe un evento grave che colpisca decine di migliaia di salariati perché ci si renda conto che serve un po' di più di ripartizione e un po' meno di capitalizzazione.

Pubblicato il

05.03.2010 01:00
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