«Rimango perché sono buono»

L'uomo con il golfino nero e la barba non fatta, Sergio Marchionne, il manager globale che aveva affascinato con il suo look informale destra e sinistra, governi e sindacati con l'esclusione della Fiom, ha gettato la maschera mostrando il suo volto a tutti, anche a chi si era rifiutato di intuirlo.

Il piano industriale megagalattico da 20 miliardi di investimenti chiamato Fabbrica Italia non esiste più, restano soltanto le conseguenze per averci creduto: invece di 1,4 milioni di vetture in Italia se ne costruiscono 450 mila e due stabilimenti su cinque sono a rischio, così come 8-10 mila dipendenti, il contratto nazionale di lavoro cancellato, la Fiom espulsa da-
gli stabilimenti, nuove regole di relazioni sociali in cui a decidere chi rappresenta i lavoratori è il padrone, sospensione del diritto di sciopero e persino del diritto alla mensa qualora il mercato chieda straordinari che non dovranno più essere contrattati dalle rappresentanze sindacali dei vari stabilimenti. Ma il mercato in Italia e in Europa ha smesso da tempo di chiedere automobili e soprattutto automobili Fiat, anche perché la Fiat ormai si chiama Chrysler-Fiat e tutta la ricerca e gli investimenti sono volati nell'America di Obama e nel vecchio continente dei 20 miliardi promessi Sergio Marchionne ne ha investito uno solo, a Pomigliano, e di nuovi modelli ne ha immessi nel mercato solo uno, la Panda che non riesce più a vendere.
Così, quel che un sindacato, la Fiom, dice da sempre e cioè da quando Marchionne impose il suo diktat a Pomigliano (lavoro in cambio dei diritti), ora a dirlo è l'uomo con il golfino nero. Che aggiunge: nuovi modelli finché dura la crisi non se ne faranno, ricerca e sviluppo e investimenti sono rinviati a quando finirà la crisi. Non serve la laurea ad Harvard per capire che quando la crisi sarà finità la Fiat non sarà più sul mercato non avendo nuovi prodotti con cui competere con la concorrenza. Improvvisamente sembrano capirlo anche Cisl e Uil, che vivono una condizione di profondo imbarazzo per aver abboccato a un amo avvelenato ed essersi trasformati in cavalier serventi del padrone. L'unico soggetto che continua ad assecondare le scelte prepotenti di Marchionne e dei suoi padroni Agnelli-Elkann è il governo Monti. Il presidente del consiglio insieme ai ministri del lavoro Fornero e dello sviluppo industriale Passera hanno aspettato a lungo che l'amministratore delegato Fiat si decidesse a fare uno squillo per accettare l'invito a recarsi a palazzo Chigi e spiegare i suoi programmi. Con Monti che ripeteva «un imprenditore ha il diritto a investire dove più gli conviene», e Marchionne ha spiegato chiaro e forte che lui investe dove gli stati sono prodighi di aiuti pubblici. Dimentica di dire, Marchionne, che l'Italia è dal 1899 che si svena per aiutare la Fiat, dai tempi della prima guerra di Libia negli anni Dieci del secolo scorso quando la fabbrica torinese prendeva soldi pubblici per costruire i blindati da scatenare nel deserto. Marchionne ricorda che lo stato brasiliano sta finanziando l'85 per cento del nuovo stabilimento nello stato di Pernambuco, che la Serbia dove ha portato modelli inizialmente destinati a Mirafiori ha steso un tappetino di velluto ai suoi piedi mettendo a disposizione stabilimento, soldi per ogni operaio serbo assunto, nessun dazio per l'esportazione verso la Russia. Così sta andando anche in Cina e in India, per non parlare dei 7,6 miliardi di dollari messi a disposizione da Obama per salvare la Chrysler, che è il marchio che sta salvando Marchionne dalla bancarotta. Oltre ai soldi pubblici, l'uomo dal golfino nero e dalla barba lunga negli Usa ha strappato i diritti operai e sindacali, con lo stesso ricatto di Pomigliano ha ottenuto la sospensione del diritto di sciopero fino al 2015 e il salario dimezzato per i nuovi assunti, dopo aver licenziato quasi tutti i vecchi al momento dell'accordo con il governo. Marchionne l'americano, anzi il canadese di passaporto, lo svizzero da contribuente fiscale, l'abruzzese di sangue, pensava di portare il modello americano in Italia, e in gran parte c'è riuscito al punto che ancora oggi seguita a scaricare sulla Fiom la causa principale del suo fallimento italiano ed europeo. E non risponde a chi gli chiede come mai la Volkswagen, pur nella crisi dell'auto, continua a vendere e a rosicchiare fette di mercato alla concorrenza, Fiat in primis. Volkswagen che nel Belpaese sta facendo shopping di marchi di auto e di moto (Lamborghini e Ducati) e affari, senza per questo cancellare diritti e contratti nazionali.
Marchionne ora dice che resterà in Italia perché è generoso e non perché qualcuno lo pretende, ma in cambio chiederà soldi pubblici attraverso la cassa integrazione in deroga per non licenziare e sgravi fiscali. Ma soprattutto, lui che ha portato la Fiat fuori da Confindustria, chiede al governo altre leggi per aumentare flessibilità, straordinari e obbedienza dei lavoratori. Come se non bastasse la cancellazione dell'articolo 18 dello Statuto con cui si liberalizzano i licenziamenti individuali, oppure le deroghe al contratto nazionale. Adesso che persino gli industriali del made in Italy come Della Valle (il padrone con più cause per antisindacalità) lo attaccano per la sua fuga dal paese, adesso che persino Cisl e Uil si preoccupano per il futuro del lavoro in Fiat, sfilano davanti ai nostri occhi come in un carosello i tanti fans di Marchionne, sindaci e diessini e dirigenti della Cgil che consigliavano agli operai di votare per il padrone rinunciando ai diritti e alla Fiom. Adesso fingono di fare la voce grossa, ma sono rauchi. A difendere i diritti operai a farsi rappresentare da chi vogliono loro e non il padrone, resta la magistratura, con una settantina di cause per antisindacalità, molte delle quali già vinte dalla Fiom.

Pubblicato il

28.09.2012 03:00
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