L'editoriale

Era il 17 marzo 2020 quando la crisi pandemica investì la Svizzera con tutta la sua forza. Quel giorno entrò in vigore il primo lockdown, che impose la chiusura di quasi tutto (ristoranti, bar, parrucchieri, palestre e la maggior parte dei negozi) e la sospensione delle relazioni sociali. Le nostre città si svuotarono e divennero spettrali. A 23 mesi esatti di distanza, il 17 febbraio 2022, sono decadute per decisione del Consiglio federale praticamente tutte le misure di protezione che ci hanno accompagnati durante questo lungo periodo. È sicuramente un momento liberatorio (per molti, non per tutti) dopo due anni di restrizioni, ma che non deve essere di euforia. Perché i tempi (rapidissimi) e il modo (con una comunicazione a tratti fuorviante) in cui ci si è giunti possono dare l’impressione che la pandemia finisca qui. Ma le cose non stanno così ed è bene saperlo.


La Svizzera, come tutti gli altri paesi che vanno in questa direzione (seppur a un ritmo più lento, soprattutto l’Italia che saggiamente continua a seguire gli inviti alla prudenza degli esperti), si assume un ennesimo “rischio calcolato”. Nonostante i dati epidemiologici siano incoraggianti e negli ospedali la situazione sia “sotto controllo” e in miglioramento (complici l’immunità di una larga parte della popolazione e l’impatto relativamente lieve di Omicron, la variante ora dominante), alla fine, a determinare se e quando usciremo dalla crisi sarà ancora una volta il comportamento del virus: decisivo sarà se esso subirà nuove mutazioni, se si svilupperanno nuove pericolose varianti e se queste si diffonderanno in giro per il mondo.


Un pericolo questo che si può pensare di sventare soltanto attraverso un approccio globale, a partire da un impegno internazionale per un’equa distribuzione dei vaccini nel mondo, anche nei paesi poveri. Ma ciò non sta avvenendo: il progetto Covax arranca perché manca dei sufficienti finanziamenti. Inoltre in molte parti del mondo il virus sta tuttora dilagando. Questo significa, avvertono gli esperti, che la fine della pandemia non può ancora essere dichiarata e che non ci si deve illudere (come sta avvenendo) che Omicron segni la scomparsa del virus.


Annunciando l’abrogazione quasi totale dei provvedimenti nazionali (resta in vigore solo l’obbligo della mascherina sui trasporti pubblici e nelle strutture sanitarie), nel nome di una «rapida normalizzazione della vita economica e sociale», il presidente della Confederazione Ignazio Cassis e il ministro della sanità Alain Berset hanno sì invitato a calmare gli entusiasmi, alla «responsabilità individuale» e a «non dimenticarsi delle persone malate e vulnerabili», ma il messaggio che passa è un altro: è quello del “liberi tutti”.


Vista l’esperienza, un abbandono graduale delle misure sarebbe stato più prudente e più rispettoso dei gruppi a rischio, persone vulnerabili che non possono farsi vaccinare perché immunodepresse, che hanno un cancro o altre malattie gravi. Per loro riguardo si sarebbe perlomeno dovuto mantenere ancora per qualche tempo l’obbligo del porto della mascherina nei negozi, anche considerato che la circolazione del virus è tuttora molto forte. Sarebbe stato un sacrificio sopportabile per chiunque, forse persino per i più accesi no-vax, no-pass e compagnia bella. E dal punto di vista psicologico, avrebbe contribuito a mantenere vivi nella popolazione un minimo di senso di prudenza e la consapevolezza che il virus non scompare.

Pubblicato il 

17.02.22
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