«Un processo nato dai tanti certificati di morte»

«Mi è sembrato di vivere un sogno mentre ascoltavo la lettura del verdetto». È un sogno di giustizia «che si è realizzato con questa sentenza» quello di cui parla, fiero, il Procuratore di Torino Raffaele Guariniello al termine della storica udienza. La Corte ha confermato l'intero impianto accusatorio e con esso la bontà delle indagini condotte da lui e dai suoi colleghi Sara Panelli e Gianfranco Colace. Indagini che proseguiranno e che potrebbero sfociare in un nuovo procedimento penale in cui tra l'altro sia presa in considerazione anche l'attività industriale dell'Eternit in Svizzera, confermano i tre magistrati.

Al loro fianco oggi c'è anche il Procuratore capo Giancarlo Caselli, a cui chiediamo che effetto gli faccia sapere che in Svizzera (patria dell'Eternit e del Signor Schmidheiny) non sia di fatto possibile, a causa delle norme in materia di prescrizione dei reati, alcuna forma di giustizia per le vittime dell'amianto. «Guardi, non ho né titolo né ruolo per giudicare l'operato degli altri. Mi limito a registrare con soddisfazione l'importante risultato che la Procura di Torino è riuscita ad ottenere», risponde, diplomatico, l'alto magistrato. Alla domanda di area risponde invece, e senza troppi giri di parole, Raffaele Guariniello: «È una cosa che mi turba profondamente. La giustizia non può essere praticata solo in un paese, ma in tutto il mondo. E per far sì che questo succeda bisogna fare i processi: purtroppo la Svizzera non li fa».
Toccherà allora ancora alla Procura di Torino indagare sulle condizioni di lavoro negli stabilimenti svizzeri dell'Eternit di Payerne e Niederurnen nell'ambito di un nuovo procedimento: «Quello di sicuro», conferma Guariniello.
Un procedimento, già battezzato "Eternit bis", che riguarda i casi di circa un migliaio di persone ammalate o decedute per esposizione all'amianto che sono stati registrati dopo il 2008 (e dunque non ancora presi in considerazione dalla prima inchiesta, conclusasi nel 2007), ma anche alcuni dei 2.200 decessi già oggetto del processo appena conclusosi e un centinaio di lavoratori italiani morti in Italia che avevano lavorato negli stabilimenti svizzeri dell'Eternit di Niederurnen (Glarona) e Payerne (Vaud) e presso la filiale brasiliana di Rio de Janeiro.
L'inchiesta è in corso già da un paio d'anni: i consulenti hanno già raccolto ed esaminato centinaia di cartelle cliniche di persone morte per malattie riconducibili all'amianto allo scopo di stabilire se vi sia un nesso di causalità tra l'esposizione alle polveri e il decesso. L'obiettivo dei magistrati è quello di «individuare i colpevoli di ciascuno di essi». Infatti, mentre nel maxiprocesso appena terminato i due imputati dovevano rispondere di un reato collettivo (disastro doloso permanente, compiuto se gli autori hanno agito nella consapevolezza di causare la morte attraverso l'amianto e sottacendone l'effettiva pericolosità ai lavoratori e ai cittadini), nell'Eternit bis vengono presi in considerazione specifici casi di morte e il reato contestato sarà quello di omicidio. «Il fatto che il Tribunale abbia accolto l'esistenza di fattispecie dolose, porterà la Procura a rivedere tutto il materiale e a procedere in questa direzione», conferma Sara Panelli, ricordando come durante l'inchiesta più leggeva le carte più si rendeva conto «dell'evidenza del dolo». Il che in qualche modo l'ha anche scioccata: «Beh, scoprire il dolo nelle intenzioni di un imprenditore non è così frequente».
Dottoressa Panelli, in Svizzera una parte importante dei media ha definito questo un processo politico. Come replica?
No. Non è un processo politico. Non ne abbiamo mai fatti. Il processo è nato dalle richieste di giustizia lanciate da alcuni legali delle parti civili e soprattutto dal numero dei certificati di morte per la stessa causa: tumore e mesotelioma, mesotelioma e tumore.

«Non gli avrebbero creduto»
Il difensore di Schmidheiny ne giustifica l'assenza. «Prova dolore e amarezza»

Torino - «Il vostro concittadino si è sempre comportato bene». L'avvocato Astolfo di Amato, legale di Stephan Schmidheiny non si stanca di ripetere questo concetto quando sa di esprimersi davanti a giornalisti svizzeri. «All'epoca -argomenta- non ha spremuto gli stabilimenti, non ha cercato di trarre profitti ed ha investito 73 miliardi di vecchie lire. E nel periodo successivo ha fatto offerte d'indennizzo addirittura confermate oggi dal Tribunale, sia per quanto riguarda i cittadini sia per quanto riguarda i Comuni. Nel caso di Casale Monferrato, la nostra offerta che tante polemiche ha suscitato era di 18,3 milioni di euro e dunque superiore all'indennizzo stabilito dal Tribunale: 25 milioni , ossia 12,5 per ciascun imputato. Ciò conferma che anche in questa circostanza l'atteggiamento di Schmidheiny era onesto e nell'interesse della città».
Perché allora Stephan Schmidheiny non si è mai presentato al processo per dare prova di tanta correttezza e di tanta onestà? «Il processo italiano non richiede la presenza dell'imputato. Anzi prevede che possa mentire e questo fa sì che le sue dichiarazioni non vengano di regola prese in considerazione. L'assenza è normale in queste condizioni».
Come vive Stephan Schmidheiny sul piano personale la vicenda di questo processo? «Con dolore e amarezza. Dolore perché è colpito dalla tragedia di Casale Monferrato e amarezza perché dopo aver investito e non aver preso una lira dagli stabilimenti italiani, si è ritrovato imputato e ora pure condannato».
Dove si trovava oggi? «Non lo so».

Per ora un arresto è improbabile

Per ora Stephan Schmidheiny non corre troppi rischi di essere arrestato, nemmeno se dovesse entrare in Italia. Lo conferma il penalista Davide Petrini, legale delle vittime e professore a Torino, che spiega:«La pena detentiva diventa eseguibile solo dopo la sentenza definitiva. A quel punto potrebbe essere emesso un ordine di arresto. In realtà, già ora la Procura potrebbe chiedere un provvedimento cautelare se dovesse ritenere che Schmidheiny intenda sottrarsi all'esecuzione della pena, ma la procedura è piuttosto complessa: la decisione deve essere presa da un giudice e può essere impugnata al Tribunale della libertà e infine in Cassazione».


Pubblicato il

02.03.2012 02:30
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