L'editoriale

Più tempo per vivere, anziché lavorare sempre più a lungo. Non è solo un semplice slogan e una giusta idea di vita, ma un bisogno dell’essere umano, tanto banale ed elementare quanto misconosciuto in Svizzera, il paese europeo in cui si lavora di più.

 

Un bisogno che è oggetto di due grandi battaglie di società: quella, di strettissima attualità, contro l’aumento dell’età pensionabile e quella per la riduzione del tempo di lavoro, che si è sviluppata lungo tutto il 20esimo Secolo consentendo progressi fino a una trentina di anni fa e che oggi torna in cima all’agenda del sindacato. Ma non solo del sindacato, visto che una durata ragionevole del lavoro è oggi un obiettivo perseguito anche dalle organizzazioni femministe e da importanti movimenti sociali e ambientalisti. Un obiettivo che va di pari passo con quello di una durata ragionevole della vita lavorativa.


Proprio questo venerdì 25 marzo vengono consegnate alla Cancelleria federale le 150.000 firme (il triplo di quelle necessarie) che sanciscono la piena riuscita del referendum contro la scandalosa riforma AVS 21 votata dal Parlamento lo scorso dicembre. Una riforma che innalza a 65 anni l’età pensionabile delle donne e sottrae dalle loro tasche 1.200 franchi all’anno di rendite di vecchiaia (già attualmente di un terzo inferiori a quelle degli uomini), ma che è pensata anche per fare da apripista a un allungamento generalizzato della vita lavorativa da realizzarsi nei prossimi anni. Tutti in pensione a 67, 68 o 70 anni: il piano della borghesia svizzera è chiaro. Ma altrettanto chiaro è che esso incontra forti resistenze nella popolazione svizzera, come testimonia l’ampiezza della coalizione di sindacati, partiti di sinistra, movimenti femministi e della società civile che hanno promosso il referendum contro AVS 21 e l’impressionante numero di firme raccolte. La battaglia è ancora tutta da vincere, ma è certamente un buon punto di partenza in vista della votazione popolare che si terrà in autunno.


Anche la battaglia per una riduzione generale dell’orario di lavoro prende corpo in un contesto che riunisce sindacati, movimenti sociali, forze progressiste e ambientaliste, in particolare nel quadro dell’alleanza “Strike for future”, che il prossimo 9 aprile organizzerà una giornata nazionale d’azione. La situazione di partenza è quella di un paese che non ha secondi in Europa in quanto a durata del lavoro: nemmeno la giornata di 8 ore è ancora realtà in Svizzera, visto che in media gli occupati lavorano 42 ore alla settimana, ossia circa 2 ore in più dei nostri vicini europei; se si tiene poi conto della minor durata delle ferie, della lunghezza della vita attiva e del debole assenteismo, ci collochiamo sicuramente tra i “campioni” a livello mondiale.


Mentre la produttività del lavoro e i profitti delle imprese (a differenza dei salari) non cessano di crescere, la durata del lavoro è la stessa di 30 anni fa. Anzi, la situazione è aggravata dall’esplosione della flessibilizzazione del lavoro, sempre più deleteria e a senso unico, in funzione dei bisogni di produzione e non certo di quelli delle salariate e dei salariati. Una situazione che produce un massiccio incremento delle malattie riconducibili allo stress fisico e psichico, che, oltre alle sofferenze, spesso portano ad un’esclusione dal mercato del lavoro.


Mentre l’economia e i suoi rappresentanti borghesi in parlamento invocano ancora più flessibilità e lo smantellamento totale della già povera legislazione sul lavoro (si discute apertamente di liberalizzare di fatto il lavoro notturno e domenicale), nel movimento sindacale (Unia ne ha discusso intensamente in occasione del recente Congresso nazionale) ma anche nelle organizzazioni femministe e per il clima cresce la consapevolezza della necessità di rilanciare la rivendicazione per una riduzione generale del tempo di lavoro, a parità di salario, ovviamente.

 

Un passo che certamente favorirebbe una più equa distribuzione della ricchezza prodotta e la conciliabilità tra vita professionale e familiare, che significherebbe meno stress, meno incidenti sul lavoro, meno malattie (con i relativi costi). Oltre che più impieghi e più tempo libero (magari da dedicare ad attività socialmente utili), più tempo per vivere.

Pubblicato il 

23.03.22
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