Un verdetto atteso da anni

Sono da poco passate le sette del mattino quando raggiungiamo il mastodontico Palazzo di giustizia torinese: centinaia di poliziotti e carabinieri ne presidiano l'intero perimetro, quasi confondendosi con decine e decine di postazioni televisive da dove tra qualche ora sarà annunciata in diretta agli italiani la sentenza del processo Eternit, il più grande mai celebrato in Europa in materia di reati ambientali, il primo che ha visto alla sbarra coloro che furono i massimi dirigenti della multinazionale dell'amianto svizzero-belga.

Dentro l'aula bunker giornalisti, fotografi e cineoperatori delle testate locali, nazionali e internazionali si preparano a seguire l'evento dal vivo, mentre cominciano ad affluire gli avvocati e il pubblico, numerosissimo: ci sono i malati, i familiari delle vittime, i sindacalisti protagonisti di grandi storiche battaglie, gli studenti, i sindaci e molti semplici cittadini della zona di Casale Monferrato, la località piemontese che, con i suoi 1.800 morti d'amianto e i suoi 50 nuovi malati di mesotelioma all'anno, è assurta a "città martire"; sono circa in 900. Ma a seguire il verdetto ci sono anche 160 delegazioni provenienti dalle altre località italiane dove Eternit era presente (Cavagnolo, Rubiera, Napoli) e da ogni parte del mondo dove l'amianto ha mietuto e continua a mietere vittime: Italia, Svizzera, Francia, Belgio, Inghilterra, Spagna, Olanda, Stati Uniti, Brasile. Tutti uniti sotto un'unica bandiera, l'ormai storica bandiera tricolore con la scritta "Eternit Giustizia": c'è chi la sventola, chi la stringe tra le mani, chi la porta sulle spalle, chi attorno alla vita, chi ne fa una bandana, chi la appende all'ingresso del palazzo e chi non l'ha ma è lì a farsi portatore della medesima richiesta.
L'intera mattinata la trascorriamo tutti in trepidante attesa del verdetto, annunciato per le 13.15. A quell'ora nella maxi aula bunker, piena in ogni ordine di posto, mancano solo gli imputati (mai presentatisi al processo) e i giudici della Corte, che fanno il loro ingresso con un paio di minuti di ritardo dopo quasi quattro ore di camera di consiglio. Il presidente Giuseppe Casalbore incomincia la lettura del dispositivo e dopo pochi secondi si apprende finalmente che la Corte, «in nome del popolo italiano», ha dichiarato il barone belga «De Cartier de Marchienne Jean Louis» e il miliardario svizzero «Schmidheiny Stephan» «colpevoli dei reati loro contestati», condannandoli a sedici anni di carcere ciascuno e al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dal reato a circa 2.500 dei quasi 6.000 soggetti costituitisi parte civile. Risarcimento in parte da liquidarsi nella separata sede civile e in parte con il pagamento di provvisionali immediatamente esecutive (che dunque le vittime possono esigere immediatamente) per una somma complessiva di circa 92 milioni di euro (115 milioni di franchi, ndr).
Il giudice Casalbore impiega più di tre ore per leggere interminabili liste di migliaia di nomi. Per gran parte del pubblico presente è una lettura dolorosa, una sorta di commemorazione di tante persone care che non ci sono più: parenti, conoscenti, amici, colleghi. L'emozione assale i presenti (compresi molti operatori dell'informazione, perché questo è stato un processo eccezionale per tutto e per tutti) quando il giudice leggendo i nomi dei beneficiari delle provvisionali, pronuncia quello di Romana Blasotti-Pavesi, la carismatica presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime di Casale Monferrato (foto grande). Lei è il simbolo vivente dell'immane tragedia consumatasi nella cittadina piemontese, perché a causa della fibra killer dispersa in fabbrica e nell'ambiente circostante dalla Eternit ha perduto ben cinque familiari: il marito, la sorella, il nipote, un cugino e infine la figlia. Ma la "signora Romana" è anche simbolo di tenacia e di coraggio, perché dopo trent'anni «di lotta dura e sofferta» e nonostante i suoi 83 anni, oggi è qui ad assaporare per la prima volta il gusto della giustizia senza lasciarsi tradire dall'emozione. Oggi vorrebbe tornare a piangere, perché non ci riesce più dal giorno in cui è morta sua figlia. Ma non ce la fa. Forse perché sa che la battaglia per la Giustizia non si è conclusa in questo freddo 13 febbraio 2012 torinese.

Pubblicato il

02.03.2012 01:30
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