Verità sull'immigrazione che non si vogliono dire

Sull’immigrazione e in particolare sulla libera circolazione delle persone con l’Unione europea prevalgono quattro modi di argomentare. Uno categorico: alziamo muri, ci rovinano occupazione, identità, ci costano in alloggi, ambiente, assistenza, criminalità. Il secondo tattico: abbiamo percentuali sproporzionate di immigrati, ci vuole equilibrio, limitiamoci a quelli indispensabili all’economia o a settori disertati dai residenti, salvando la competitività. Il terzo è esclusivo: non siamo contrari all’immigrazione, ma escludiamo le persone non qualificate. C’è un denominatore comune: il proprio interesse. Del “prima noi” (anche comprensibile), ma soprattutto quello alimentato dall’avversione all’altro, all’estraneo. Perché ci “ruba” qualcosa (lavoro, sovvenzioni, diritti acquisiti che si ritengono solo nostri, posizioni sociali) oppure perché ci “turba” (modo di essere, identità, spirito di iniziativa, religione ecc.). Aggiungiamo quattro considerazioni che raramente si fanno.


La prima è di carattere generale: ci troviamo, in genere, in una società che ha preso la cattiva abitudine della gratuità e non vuol pagare il prezzo che ogni beneficio comporta. Ogni azione comporta sempre effetti positivi e negativi, profitti e perdite. È come per le medicine, con gli effetti collaterali. La Svizzera è spesso accusata (dall’Europa, ma ora anche dagli americani, che forse pensano alla commessa degli aerei) di “cherry picking”: scelgo le ciliegie buone. Esiste un legame tra questo gusto della gratuità e il rifiuto di scegliere, perché scegliere significa dover rinunciare a qualcosa, rischiare e pagare qualcosa. Per quale motivo continua all’infinito questo busillis dell’immigrazione, tiremolla tra politica ed economia, lampada di Aladino nella caverna elettorale di qualche partito? Perché in un modo o nell’altro bisogna scegliere e bisogna anche pagare qualcosa. L’impotenza a scegliere è una causa dell’infantilizzazione della politica e della società. E ci siamo dentro.


La seconda è di bilancia dei pagamenti. Più difficile da spiegare. C’è un sofisma economico dominante: sono gli immigrati (i frontalieri) ad aver bisogno di noi, siamo noi che paghiamo. Ma ecco il virus. Spieghiamoci con l’attualità. Lodi a profusione per l’Italia che, pur trovandosi in tragica difficoltà, non ha limitato l’accesso di personale sanitario lombardo (frontaliero) nel Ticino. Secondo i parametri dell’Istat (istituto di statistica, non molto dissimili dai nostri) la formazione di un infermiere costa in media allo Stato italiano 150mila euro. Sono più di quattromila quelli operanti in Ticino. Si facciano pure le necessarie ponderazioni, ma un semplice calcolino di bilancio sul solo “risparmio” formativo del Ticino porta sulle decine di milioni di franchi. Perché questi bilanci non si fanno mai? Anche quando si affronta con “cherry-picking” il problema fiscale con l’Italia.
La terza osservazione è matematica. Con un indice di fecondità dell’1,5 per cento in Svizzera e dell’1,3 in Ticino (il più basso della Svizzera) in neppure mezzo secolo saremmo in via d’estinzione se non supplisse un’immigrazione netta, rispetto alle nascite, del 40 per cento per la Svizzera e del 60 per il Ticino. Chi pensa mai a questa realtà drammatica?
La quarta osservazione è un’incongruenza sociopsicologica: sono sempre più le persone residenti che hanno una storia vecchia o più recente di migrazione alle spalle e che si privano di memoria ammalandosi di quella che gli americani definiscono (anche nei confronti del loro presidente) “last place aversion”, cioè l’avversione nei confronti di chi è arrivato o arriva  dopo. E si sa come votano.

Pubblicato il

27.08.2020 14:08
Silvano Toppi
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