E la chiamano integrazione. Il nuovo corso impresso anche alla politica degli stranieri dal blocherismo imperante in governo e parlamento, sta intorbidendo le idee e confondendo i termini. Prendiamo, per esempio, l'integrazione, che già un anno fa era stata oggetto di un corposo rapporto dell'Ufficio federale della migrazione (anche questa, una bella trovata: l'Ufm non è altro che la vecchia "Polizia degli stranieri" camuffata sotto un nome nuovo) e che la settimana scorsa il Consiglio federale ha concretizzato in misure da affiancare alla nuova legge sugli stranieri, in vigore dal 1° gennaio 2008.
In passato, l'integrazione degli stranieri era anzitutto una questione politica e sociale. Se ne discuteva in termini di riconoscimento o concessione di diritti politici e civili (parità giuridica, diritto di voto, ecc.), di partecipazione alla vita politica e sociale, di apertura mentale e di reciproco arricchimento culturale. Per promuoverla, era stata creata negli anni Settanta la Commissione federale consultiva per il problema degli stranieri (allora si chiamava così), sul cui ruolo l'allora ministro di giustizia e polizia, il democristiano sangallese Kurt Furgler, polemizzava volentieri con la sinistra e con i sindacati. Quest'ultimi accusavano il Consiglio federale di usare la Commissione un po' come alibi, come foglia di fico per attuare in realtà, con il loro apparente consenso, una politica di assimilazione (mascherata da integrazione) e una riforma in tal senso della vecchia legge del 1931 sulla dimora e il domicilio degli stranieri (detta "Anag"). Essi denunciavano anche i veri scopi di quella politica: a breve, consentire all'economia di sfruttare i lavoratori immigrati come ammortizzatore congiunturale; nel tempo, utilizzare gli stranieri per colmare i vuoti demografici della popolazione svizzera.
Dunque, c'era chiarezza nei termini: una cosa era l'integrazione, altro l'assimilazione. La discussione s'era poi estesa negli anni Ottanta e Novanta, precisando da un lato il concetto d'integrazione culturale e diffondendo dall'altro l'idea (vaga, a dire il vero, e un po' utopistica) di società multiculturale. Nel frattempo, anche sul piano degli interventi concreti per l'integrazione (finanziati da Berna) i concetti s'erano un po' troppo allargati: si faceva passare (e finanziare) per integrazione culturale di tutto e di più. Adesso, con l'ultimo rapporto dell'Ufm, si tira il freno e si dice stop alle «idee romantiche». «Adesso l'integrazione si fa, là dov'è importante», ha sottolineato pesantemente Blocher: con l'apprendimento della lingua, con la formazione professionale, con l'inserimento nel mercato del lavoro. Giusto. Peccato però che al povero immigrato non si lasci scelta. Anzi lo si costringe a pagare i corsi di tasca propria: deve dar prova di volersi davvero integrare. E poi deve lasciarsi esaminare: se non ha imparato bene, ricominci daccapo. O così, o fuori.
E questa sarebbe integrazione? Sembra piuttosto un'assimilazione, "imperativa e categorica" come tante cose del vecchio fascismo. Insomma, un'integrazione "à la Blocher".

Pubblicato il 

31.08.07

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