È arrivata di notte la prima sconfitta politica sul campo di Giorgia Meloni. L’onda anomala ha attraversato il Tirreno e si è rovesciata sul bagnasciuga di Palazzo Chigi infradiciando il governo di destra-destra. Dopo un testa a testa con il suo avversario durato fino alle due di notte Alessandra Todde, quattro lingue compreso il sardo e due lauree, vicepresidente del Movimento 5 Stelle, ex sottosegretaria nel governo Conte e viceministra con Draghi nonché sommelier, ha vinto il duello ed è diventata la prima donna presidente della Sardegna che, grazie a lei, rappresenta la prima regione a guida pentastellata. È il risultato di un patto vincente tra M5S, Pd e Alleanza Verdi Sinistra, un campo largo come lo chiama Elly Schlein, non larghissimo perché i centristi Calenda e Renzi e Rifondazione comunista sostenevano il candidato scissionista del Pd Renato Soru, finito fuori strada non avendo raggiunto il 10% previsto dalla legge sarda per avere rappresentanti in consiglio. Una vittoria cercata con un rapporto leale e un lavoro finalmente unitario di Conte e Schlein ma inaspettata avendo di fronte un avversario, l’ex sindaco di Cagliari Paolo Truzzu, imposto da Giorgia Meloni a costo di sfiorare la rottura con Salvini che puntava alla riconferma dell’ex presidente Solinas, sardista targato Lega. La premier si è battuta con tutte le sue forze per la vittoria di Truzzu, e sia pure per poche migliaia di voti ha perso la scommessa e la faccia. Il candidato delle destre mica tanto unitario ha preso meno voti dei partiti che lo sostenevano, segno che sardisti e leghisti hanno scelto il voto incrociato, un segno sul partito e uno sul presidente di un altro schieramento. E apriti cielo, lo scontro tra Salvini e Meloni è salito alle stelle. Salvini che è convinto di essere in credito con Meloni dopo lo sgarbo sardo è già pronto a riaprire la guerra per eliminare il vincolo dei due mandati ai presidenti di regione e riproporre per la terza volta Zaia alla guida del Veneto.

 

A chi le ha chiesto come avesse festeggiato, Alessandra Todde ha risposto con un sorriso sereno, aggiungendo: «Adoro i vini come la Vernaccia di Oristano o la Malvasia di Bosa e ieri sera sono andata di Cannonau». Non ha voluto Conte e Schlein sul palco per la chiusura della campagna elettorale, una mossa intelligente in una regione assai gelosa della propria autonomia, ma li ha accolti a braccia aperte nella notte della vittoria, prima di agguantare il calice di Cannonau. Ha detto un’altra cosa importante la prima presidente donna della Sardegna: «I sardi hanno risposto ai manganelli con le matite» elettorali, «mi hanno molto colpito i fatti che sono accaduti a Pisa, io ho studiato a Pisa e quello che è capitato a dei ragazzi ci deve ricordare che i diritti non sono scontati». Ai ragazzi che manifestavano pacificamente per la fine dei massacri israeliani a Gaza – studenti, molti dei quali minorenni - è capitato di ritrovarsi a terra con la faccia piena di sangue per le manganellate feroci e gratuite della polizia, in dieci sono finiti all’ospedale. Stessa scena nelle stesse ore a Firenze e nei giorni precedenti a Torino e a Napoli. Sembra di essere tornati ai tempi del G8 di Genova del 2001, tantopiù che il questore di Pisa ai tempi era vicequestore a Genova, tantopiù che quest’anno è l’Italia a guidare il G7, che è il G8 senza più Putin. Quelle manganellate hanno scatenato la rabbia del paese reale, delle forze democratiche, delle istituzioni al punto che, fatto inedito per un presidente attento alle forme e al rispetto istituzionale, Segio Mattarella è stato costretto a scendere in campo in prima persona con una telefonata a Meloni e un comunicato diretto al ministro dell’interno Piantedosi per precisare che «i manganelli sui ragazzi» rappresentano «un fallimento». Siamo al richiamo formale all’ordine violato e al diritto a manifestare violato dalla violenza gratuita della polizia, ben oltre la classica moral suasion che è l’arma tradizionale imbracciata dal Quirinale. Non staremo ad annoiare i lettori di questo giornale a elencare nuovamente tutti i fatti che spingono a sentire intorno a Giorgia Meloni e ai suoi camerati la puzza di fascismo, lo ripetiamo in tutti gli articoli dal giorno in cui la destra estrema ha preso il potere in Italia.

 

Dunque, dopo lo schiaffo di Mattarella è arrivato quasi a sorpresa quello del “popolo sardo” a turbare le notti del governo e di un’alleanza tra FdI, Lega e FI tenuta insieme solo dal potere che pretende sia assoluto, perché la destra non vuole fare prigionieri, odia i poveri, i lavoratori, i sindacati, i migranti, gli avversari politici e occupa tutti i centri di potere. C’è una relazione tra i manganelli di Pisa e la sconfitta di Cagliari? In parte sì, ma soprattutto c’è la sterminata presunzione di Giorgia Meloni che si credeva onnipotente, capace di imporre i suoi diktat ai cittadini e anche agli alleati di governo, sicura che bastasse mettere il suo nome e la sua faccia su un candidato per farlo vincere. Voleva lanciare Truzzu oltre l’ostacolo e invece contro l’ostacolo ha battuto il muso. Ha perso, sia pure per solo tremila voti, nonostante il Pd avesse subito una scissione da parte dei nemici del M5S, quel Soru che per puro personalismo ha deciso di andare, anche lui, a battere il muso contro l’ostacolo, voleva far perdere il centrosinistra allargato e ha perso lui disperdendo il 9% dei voti.

 

Todde è tra i vertici pentastellati la più dichiaratamente orientata a sinistra, come lo è Roberto Fico, e più impegnata nella costruzione di un’alleanza organica tra il movimento e il Pd della Schlein e la sua vittoria può aiutare a ridurre le resistenze di Conte. Ma la vittoria sarda è una boccata d’ossigeno anche per Schlein che ha rischiato molto rifiutando di cedere alle pretese presidenzialiste di Soru per salvaguardare il rapporto con il M5S. Anche la rissosa minoranza del Pd che continua a guardare più a Calenda e Renzi che a Conte è stata costretta a congratularsi con la segretaria per la vittoria dei quattro mori, esaltata dal sorpasso del Pd, che è diventato il partito più votato dell’isola, sui Fratelli d’Italia. In attesa delle europee di giugno che continuano a dividere le forze d’opposizione, già incombe il prossimo appuntamento elettorale. Tra due settimane si vota per il rinnovo del consiglio regionale dell’Abruzzo e le forze di opposizione (vere e finte) combattono unite a sostegno dello stesso candidato, l’ex rettore dell’università di Teramo sostenuto, oltre che da Pd, M5S e Avs, addirittura da Renzi e Calenda. Il sogno dichiarato è di togliere un’altra regione alle destre e di mollare il terzo ceffone a Giorgia Meloni.

 

Unico neo dell’elezione sarda, non un sassolino nella scarpa ma un macigno sulla democrazia, è la percentuale dei votanti che non va oltre il 52%. Sarebbe ora che le forze politiche, almeno quelle d’opposizione, mettessero in cima ai loro pensieri e alle loro agende politiche il tema della partecipazione, cioè della frattura gravissima tra società civile e politica.

Pubblicato il 

27.02.24
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